Il grado o la fascia di capitano ha sottinteso, da sempre, un doppio significato: da un lato la responsabilità del comando e della decisione, dall’altro il ruolo di figura di riferimento e rappresentanza. Nella vita militare e civile, come nello sport, il capitano è di fatto la figura emblematica, colui che ha meritato il rispetto dimostrando di valere sul campo, saputo guadagnare i galloni, esercitare il ruolo di guida, saper indicare alla propria squadra le azioni da compiere. Nelle attività sportiva ci si allena e si memorizzano schemi e tattiche di gioco per offrire a se stessi e al team la migliore prestazione; laddove vigono le regole e i dettati più ferrei per la migliore esecuzione di condotte e manovre c’è quasi assenza di improvvisazione, eccezion fatta per la capacità di lettura delle situazioni e la conseguente decisione sul da farsi. Ecco che nel volgere di poco tempo ci si imbatte nel tradimento e nella codardia. Si può associare il comportamento illegale dei professionisti del calcio, pronti a barattare l’etica e l’onore con una scommessa che poco aggiunge alla vita certamente non precaria, a quello del comandante della nave Concordia? I punti in comune sono tanti, alcuni più evidenti di altri. Uno su tutti. Chi ha giurato fedeltà ad una squadra, ma gioca ad alterare i risultati per proprio interesse, è indifendibile. Chi abbandona la nave in agonia con i suoi occupanti, palesando totale incapacità di decisione e comando, pensando di governare gli eventi dall’alto di uno scoglio, è altrettanto indifendibile. Con una differenza. I calciatori colpevoli di tradimento verso la propria società e i propri sostenitori hanno fatto volutamente naufragare i principi dell’etica e dell’onore. Il comandante della nave Concordia, con il suo comportamento maldestro e maramaldeggiante, ha condotto al naufragio un’ammiraglia concepita per solcare il mare in tutta sicurezza, negando l’evidenza e rischiando di trascinare in mare migliaia di vite umane