Paola Magoni ora vive in Brianza, nell’anonimato più assoluto. Esce in bici, va a fare la spesa, passeggia tra la gente nell’indifferenza più totale. Lei è rimasta così. La ragazza di sempre. Semplice, schietta, bergamasca forgiata in quel di Selvino dove ci sono più campioni e Magoni che alberi.
Eppure dopo 40 anni dalla sua impresa, aver vinto l’oro nello slalom speciale alle Olimpiadi di Sarajevo nel 1984, Selvino e il mondo dello sport la ricordano come fosse ieri.
Pagine di giornali, trasmissioni televisive, video della sua gara che si ripetono in rete a go-go, non sono bastati. Selvino fa di più: gli regala una festa e sabato l’hanno inondata di un affetto che non recede di un grammo.
Come quarant’anni fa quando arrivata all’aeroporto di Orio al Serio i bergamaschi avevano bloccato lo scalo in attesa della campionessa. Lei, bergamasca! E poi la fatica ad arrivare a Selvino perché c’erano così tante persone da intasare i tornanti che da Nembro portano a Selvino. Una marea di bergamaschi. Quella folla oceanica oggi ricorda ancora con affetto quella impresa. Da un paese piccolo di duemila anime è uscita fuori una campionessa che ha reso internazionale Selvino, grazie anche all’intraprendenza di Angelo Bertocchi che già a Sarajevo ha cominciato a distribuire depliant che descrivevano il paese perché tutti volevano sapere la provenienza di questa ragazza ventenne già nell’olimpo degli sciatori mondiali.
Ieri sera anche la Biblioteca dello Sport Nerio Marabini di Seriate gli ha dedicato una serata speciale. Ad ascoltare i suoi racconti, oltre al fratello Oscar (campione nel mondo del calcio, oggi direttore sportivo del Renate) e i familiari più stretti, anche tanti campioni dello sport da Ivano Camozzi ad Alberto Carrara, da Roberto Marchesi a Marco Gualdi. E la serata trascorsa in genuina compagnia si è dipanata nei racconti spontanei di Paola Magoni, l’antidiva per eccellenza.
Lei non ha mai voluto cavalcare l’onda del successo per cucirsi addosso un personaggio. Tutt’altro. Ha sempre schivato. Anche quando ha finito di sciare, visto che nessuno l’ha più chiamata anche solo per fare da consulenza a qualche latitudine delle Nazionali del circo bianco, lei si è data da fare è si è ricreata prima barista, poi commessa e, infine, esperta di attrezzature del mondo dello sci. Oggi insegna ai bambini come si scia e aiuta il fratello Livio, che allena campionesse di sci alpino.
La medaglia di Sarajevo è il punto più alto della sua carriera da Senior, a cui si aggiungono moltissimi successi da juniores. Da bambina vinceva le gare battendo anche i maschietti. E da lì papà Gianfranco capì che aveva tra le mani una potenziale campionessa mondiale. Impegnò ogni energia, anche quella economica, per far arrivare Paola Magoni in alto. E ci riuscì.
Di quel giorno storico Paola racconta: “Quell’anno ero nelle prime 15 sciatrici del mondo, ma non ero mai riuscita a piazzarmi tra le vincenti. Sbagliavo sempre qualcosa. La notte prima della gara delle Olimpiadi sognai di vincere. Ma quando mai? Mi dissi. E invece il giorno dopo vinsi. Quando alla fine della prima manche vidi che il mio distacco era solo di 14 centesimi, mi sono detta O oggi o mai più. Scesi per prima nella seconda manche…” e fece la differenza. Vincendo.
Cosa si prova? “Impossibile descrivere quelle emozioni così forti e uniche. Poi vincere di fronte a mio papà, che ci teneva così tanto e che aveva fatto tutti quei sacrifici è qualcosa di indescrivibile”.
Nell’88 a Calgary Paola Magoni si presenta da campionessa uscente. “Ma quell’anno ho vissuto un periodo dove non stavo sciando bene. Sono arrivata settima, ma mi è andata persino bene. Ma ciò che conta per un atleta è vivere il clima e l’atmosfera delle Olimpiadi, soprattutto nel villaggio dove puoi incontrare e conversare con gli atleti anche delle altre discipline. Una bellissima esperienza”.
Sei mai tornata a Sarajevo? “Sì, sono tornata due volte. La prima volta subito dopo la guerra negli anni Novanta. E sono rimasta molto male. C’era tutta la città sottosopra ancora distrutta dai segni della guerra. La seconda volta l’anno scorso, dove mi hanno riservato una grande festa”.
Quando hai deciso di smettere? “Ho deciso di smettere quando ho visto che le mie richieste non sono state esaudite. Avrei voluto avere un team privato con allenatore e lo staff di mia fiducia. Così non è stato. Mi cambiavano allenatore ogni due per tre e così non sono più riuscita ad andare avanti e ho deciso di smettere”.
Le medaglie le conserva gelosamente in banca. “Ho paura che me le rubino e le tengo in banca”. Non tanto per il valore economico in sé, quanto per l’inestimabile valore affettivo. Quello imperituro che la gente di Selvino e tutti i bergamaschi ancora oggi le riservano. Ed è veramente inestimabile.