La città di Roma è stato teatro di un’aggressione sconcertante a un gruppo di sostenitori del Tottenham, squadra che ha affrontato la Lazio allo stadio Olimpico pareggiando a reti bianche l’incontro inserito nel girone eliminatorio di Europa League. Il problema è che il fatto è avvenuto in un contesto diverso dall’anello del calcio giocato, ma in pieno centro, dove l’appartenenza a un club è dettata solo dai colori indossati. Se ci si fosse limitati alle analisi delle prime 24 ore successive al cruento episodio, avremmo tratto conclusioni certe o quasi, perché è innegabile come, anche recentemente, dagli spalti biancocelesti si siano levati striscioni antisemiti (il Tottenham è notoriamente espressione della cultura ebraica e uno dei club di più lunga tradizione del calcio d’oltremanica). In occasione dell’ultima derby capitolino e proprio nella gara di Europa League, ovvero dopo l’incresciosa aggressione, le scritte a favore di pubblico e telecamere erano eloquenti. Ha ragione il presidente laziale Lotito quando sottolinea che quanto capitato in centro città è puro episodio di violenza e razzismo, in cui il calcio è solo occasione e pretesto per agire in nome di una condotta che niente ha di civile. I responsabili appaiono svincolati dai gruppi di tifoseria organizzati, denunciano un’appartenenza trasversale, rappresenterebbero una frangia formatasi sull’eco di un tam-tam che come matrice comune ha l’odio sociale e razziale. E allora c’è da preoccuparsi. Nessuna società sportiva può permettere di essere identificato con autori di azioni violente, né tantomeno la tifoseria organizzata alla quale, in ogni città o quartiere, viene chiesto espressamente di isolare e allontanare chi cerca di addentrarsi nella loro sfera e acquisirne identità per agire indisturbato lontano dal teatro dell’evento agonistico.