Ottavio Bianchi, l’austro-ungarico con Napoli nel cuore. A Sapiens Festival i racconti dell’allenatore

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Un festival culturale che indaga l’umanità in tutte le sue sfaccettature. Sapiens Festival è fatto di quel quid che le donne sanno mettere nella vita: Claudia Mangili e Margary Frassi sono le anime di questo contenitore ambulante che porta sapienza in giro per le province di Bergamo e Brescia. Al nutrito programma una serata è dedicata al genio. Ma non al genio inteso come creatività espressa, quanto a come si possa contenere, modellare, incanalare o addirittura domare, se questa risorsa è compressa dentro una personalità dall’umanità complessa.

La serata è intrigante. L’appuntamento è alla sala della comunità di Osio Sotto. A essere interrogato Ottavio Bianchi, l’allenatore che rese Napoli felice per aver conquistato il primo scudetto della sua storia nel 1986. Il Napoli di Maradona. A interrogare il giornalista Stefano Serpellini, che è andato a studiarsi tutto il percorso di Bianchi-allenatore dentro le pieghe più recondite di una città che mischia il fascino della cultura, alla simpatia epidermica sociale con il lato oscuro di una organizzazione che sfonda i confini della legalità e trascina la realtà dentro una obliqua oscurità.

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Fulcro della serata il libro scritto dalla figlia di Ottavio Bianchi, Camilla, giornalista e narratrice di un dietro le quinte familiari tutto da gustare. “Sopra il vulcano” il titolo del libro, edito da Baldini+Castoldi con la prefazione di Gianni Mura.

Sapiens Festival
Claudia Mangili, Camilla Bianchi, Ottavio Bianchi, Stefano Serpellini (Foto di Pier Carlo Capozzi)

Definire Ottavio Bianchi è impossibile. Ogni figura retorica che si voglia utilizzare è insufficiente a descrivere l’uomo, l’allenatore, il giocatore. Ma l’immagine restituita nel tempo agli appassionati di calcio è proprio quella dell’allenatore del Napoli che vinse lo scudetto con Maradona. Ma chi gli si è avvicinato di più nel saperlo ritrarre – a detta della figlia Camilla – è stato Gianni Mura. Il giornalista in un articolo apparso su Repubblica il 18 luglio 1985, chiudeva scrivendo: “Una sensazione di freddo e pulito, come se gli fosse nevicato dentro. Un feroce autocontrollo. Un costante rifiuto dei luoghi comuni. Mi sa che questo Bianchi, disponibile e arroccato, andrà molto lontano. Non è una certezza o una previsione tecnica, solo un presentimento”.

Di lui si sono tracciati diversi profili: da chi gli attribuisce il carattere e l’educazione di tipo austro-ungarica; chi di Homo vertical per la sua inflessibilità e chi, semplicemente, ricorda invece che è solo bresciano e lombardo. Di sicuro ovunque egli sia stato, che fosse Napoli, Avellino o Bergamo e Como, egli ha portato e fatto applicare l’unica e sola regola: quella del lavoro duro. Bianchi di sé dice: “Mi ritengo un dittatore democratico” e respinge alla figlia il titolo di “Sergente di ferro”.

Di Napoli Ottavio Bianchi serba un ricordo dolcissimo. Ne parla con affetto. “A Napoli – dice – mi hanno sempre rispettato come uomo; ed è questo che mi piace di quella città”.
Anche se gli anni trascorsi a Napoli, Bianchi li ha vissuti dentro una solitudine quasi monastica. Si divideva tra il lavoro sul campo degli allenamenti e delle partite e l’hotel. Non aveva una casa e la famiglia l’aveva lasciata a Bergamo per mille ragioni, non ultima quella della sicurezza.

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Margary Frassi, Claudia Mangili, Camilla Bianchi (Foto di Pier Carlo Capozzi)

Ma parlare del Napoli squadra di calcio significa parlare di Maradona. E allora, come vuole il tema della serata, signor Bianchi come si doma il genio? (riferito a quell’indomabile di Maradona). Intanto da dire che ogniqualvolta alla televisione appare un Maradona diverso da quello conosciuto da Bianchi sui campi di calcio, il mister spegne la tv. “Voglio ricordarlo com’era quando era in forma e sul campo”. E cita una frase scritta da Fernando Signorini, preparatore atletico di Maradona. “Una frase – dice Bianchi che spiega chi e cos’è Maradona”. Signorini scrive così: “Con Diego faccio il giro del mondo; con Maradona nemmeno il giro dell’isolato”.

E per venire al tema della serata Bianchi afferma: “È facile lavorare con i fenomeni perché i più grandi sono anche i più umili. Maradona era un punto di riferimento incredibile per tutta la squadra. Il fuoriclasse è colui che si esercita più degli altri e mette a disposizione il proprio talento a servizio della squadra. Invece è difficile lavorare con chi si crede fenomeno, ma non lo è”. E poi via con una massima universale che si può applicare al calcio di ogni epoca: “Le qualità del singolo esaltano il collettivo e il collettivo esalta le qualità del singolo. Così ho vinto lo scudetto col Napoli”. Maradona per tutti e tutti per Maradona.

Un accenno agli eccessi extracalcistici di Maradona Bianchi lo fa, sollecitato dall’intervistatore. “Ho capito che non potevo fare nulla quando un giorno dissi a Diego quello che pensavo. Mi rispose: Mister, ha ragione. Ma io voglio vivere al massimo col piede sull’acceleratore”.

Il rammarico di Camilla, ora che è consapevole di quanto successo a Napoli con la vittoria del primo scudetto, è quello di non essere stata presente con la famiglia a festeggiare. Ma l’inflessibile Bianchi di rimando: “Ma che c’è da festeggiare? Abbiamo fatto solo il nostro lavoro”. Ed è quello che si è sentito dire Galeazzi allo stadio quel giorno; e mentre tutti i giocatori gioivano in mezzo al campo, Ottavio Bianchi si involava negli spogliatoi alla ricerca del suo isolamento.

Il mestiere più bello? È quello del giocatore. Ho saputo di voler giocare a calcio sin da bambino. A 17 anni l’esordio tra i professionisti con il Brescia. Quello dell’allenatore un mestiere interessante. Quello del presidente, un mestiere difficile”.

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Camilla Bianchi, Ottavio Bianchi, Daniele Filisetti, Marino Magrin (Foto E.P.)

L’uomo si è sempre trovato in mezzo a situazioni difficili. “Mi chiamavano quando dovevano sistemare le cose”. Avellino, per esempio. Ma anche l’Atalanta, quando retrocesse in Serie C. Bortolotti chiamò Bianchi e gli chiese di tornare subito in B, cosa che avvenne.

In sala due di quei giocatori sono venuti a salutarlo: Marino Magrin e Daniele Filisetti. Il primo ricorda come sia diventato un buon tiratore di punizioni, grazie agli allenamenti del venerdì imposti da Bianchi. Filisetti ha ammesso di non essere mai stato in possesso di una grande tecnica, ma di molto carattere. E che Bianchi gli ha fatto credere di poter diventare un calciatore. Dopo l’Atalanta, Filisetti, ha giocato nella Lazio. Mentre Magrin dopo l’Atalanta ha giocato nella Juventus. “Grazie mister”. Bianchi difronte a tanta stima ha ribadito che “sono queste, più che lo scudetto vinto, a darmi la soddisfazione più grande”. È l’umanità, bellezza.

La scheda
Ottavio Bianchi, classe 1943, nasce come calciatore nelle giovanili del Brescia. Fa il suo esordio nel 1965 in Serie A con il Brescia; dal 1966 passa al Napoli in cui rimane cinque campionati; poi veste le maglie di Atalanta, Milan e Cagliari. Chiude la carriera da calciatore nel 1977 con la Spal.

Da allenatore comincia con il Siena, poi Mantova, Triestina e Atalanta (1981-82) chiamato alla promozione immediata. Passa all’Avellino (1983-84), poi Como e nel 1986 a Napoli vince lo storico primo scudetto della città partenopea + la Coppa Italia.
Nel 1987 perde le ultime quattro partite di campionato e consegna lo scudetto al Milan.
Nel 1990 allena la Roma (vince la Coppa Italia e arriva in finale di Coppa Uefa persa contro l’Inter).