“Amare una Dea” non è un libro. Sicuro. Anche se le sembianze sono quelle: ci sono sei protagonisti, un narratore, un editore, una copertina e una serie di pagine da leggere. Ma dentro le pagine c’è vita. Non una vita o la vita di chi racconta. Lo ha magistralmente sintetizzato Luca Percassi, alla presentazione al Gres Art di via S. Bernardino in città.
“Questi aneddoti – ha detto l’amministratore delegato nerazzurro – rappresentano ogni tifoso dell’Atalanta. Ognuno vive l’Atalanta a suo modo e ha una storia da raccontare”. E quella storia è un pezzo di vita di ogni bergamasco: da quando realizza che nelle sue vene scorre sangue nerazzurro. “Perché – è sempre Luca Percassi a dire – Bergamo è l’Atalanta e l’Atalanta è Bergamo. Non esiste un modello Atalanta; esiste un modello Bergamo. I risultati che abbiamo conseguito sono stati possibili perché noi siamo Bergamo”. E da ultimo, ecco l’eredità che i bergamaschi lasciano al dirigente atalantino quando li incontra personalmente: “Devi voler bene all’Atalanta”. E non potrebbe essere il contrario. L’ultima rivelazione è familiare e intima, ma che dice il rapporto Atalanta-famiglia Percassi. “Da poco è arrivata la dodicesima nipotina in famiglia – conclude -. I genitori hanno deciso di chiamarla Dea. E così abbiamo anche una Dea Percassi”. Più di così cosa si vuole? Immaginiamo che il kit baby nerazzurro per questa Dea sia speciale.
“Amare una Dea”: il titolo merita – secondo Fabio Finazzi, il narratore-ideatore di questo progetto di vita – un approfondimento. “Si sa – afferma – che la mitologia greca non vanta Atalanta come dea, bensì Atalanta è una ninfa, veloce nella corsa, ma sempre ninfa è. A Bergamo la ninfa è diventata Dea. Un salto ontologico che va di pari passo al salto di categoria che ha compiuto l’Atalanta nelle sue gesta sportive calcistiche”. E l’argomento si è chiuso lì, per buona pace di Pietro Serina, l’Erodoto rigoroso (ma non ditelo a sua moglie professoressa al Liceo di Lettere e Letterature classiche) che mai nominerà l’Atalanta quale Dea.
E ora i personaggi. Sei, come nel parallelo pirandelliano, tutti con il gusto dell’umorismo dello scrittore siciliano. Personaggi altisonanti nelle loro cariche professionali di elevatissimo livello: Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto Mario Negri; Nando Pagnoncelli, sondaggista amministratore delegato di Ipsos, Davide Ferrario, regista e documentarista; Gigi Riva, noto inviato di guerra nei Balcani e in Medio Oriente; Donatella Tiraboschi, giornalista dai tratti stilistici brillanti, su costume, cronaca, economia e sport; e, infine, il sesto, Pietro Serina, l’esegeta dell’Atalanta, quarant’anni di cronaca sportiva da cui sono scaturiti una miriade di annali del calcio bergamasco, i due tomi poderosi della storia centenaria dell’Atalanta, un recente libro sulla vita nerazzurra del dirigente-imprenditore Miro Radici e che ha seguito l’Atalanta ovunque. Lui ogni domenica sera deve riempire le caselline delle sue personalissime statistiche, utili a comporre la memoria e il rigore negli articoli.
La serata si trasforma in una sarabanda dove i sei personaggi smettono gli abiti aulici della professione e indossano la sciarpa dai colori del proprio cuore: il nerazzurro. E i racconti diventano aneddoti divertentissimi tutti da gustare.
Nando Pagnoncelli viene chiamato a intervenire al Sinodo della Cei, proprio la sera della partita Liverpool-Atalanta, sì quella storica del 3-0 ad Anfield. Ai prelati dice candidamente: “Sono qui, ma la mia vera fede è altrove”. E siccome anche tra i Vescovi e i Cardinali serpeggia la malattia del tifo calcistico, quando hanno saputo com’è andata a finire gli hanno detto: “Ti abbiamo portato fortuna. Bene. D’ora in poi organizzeremo i nostri incontri guardando il calendario dell’Atalanta”.
Qualche anno prima Pagnoncelli, allora amministratore di Abacus, viene chiamato dal Milan per una proposta da parte della società rossonera per una ricerca di mercato. Nando ricorda due cose del Milan: il 15 ottobre 1972 i rossoneri batterono l’Atalanta 9-3. “Mio padre portò a San Siro me e mio fratello. Il viaggio di ritorno fu una mestizia con mio fratello che ha pianto per tutto il tragitto fino a casa. È stato il peggior risultato subito di tutta la Serie A”. E l’altro episodio che è rimasto di traverso a Pagnoncelli è quella rimessa mai restituita: era il 24 gennaio 1990. Partita di Coppa Italia che vale l’accesso alle semifinali. Si gioca a Bergamo e l’Atalanta è in vantaggio. Al Milan basta il pari. Stromberg mette la palla fuori per permettere i soccorsi a Borgonovo. La palla non viene restituita e da lì scaturì un rigore per il Milan che Baresi segnò. “Quando mi presentai al Milan – racconta Pagnoncelli – mi trovai davanti Massaro. E subito gli chiesi: Perché non avete restituito palla quella volta? Quel lavoro non fu mai dato ad Abacus”.
Il dottor Remuzzi racconta, invece, della finale di Dublino. “Ero a casa con amici, fra cui lo psichiatra Biza. Su Bergamo si abbatté un forte temporale e uscì la corrente. Andammo a vedere la partita a casa del dott. Biza. Durante la partita – racconta Remuzzi – squilla il telefono. Era Mario Draghi che mi disse: Siete fortissimi. È un piacere vedere giocare l’Atalanta. Scaramantico come sono non dissi niente. Poi al terzo gol di Lookman l’ho richiamato”.
Ma c’è un altro episodio che Remuzzi riporta alla memoria ed è anche questo un episodio di poco fair play e questa volta coinvolge la squadra del Napoli. 8 aprile 1990: Atalanta-Napoli. Remuzzi è allo stadio perché vuol vedere Maradona dal vivo. Ma quella volta non fece una gran partita. Però assistette all’episodio che regalò al Napoli lo scudetto. Alemao è colpito da una monetina da 100 lire. Dirigenti e calciatori dicono ad Alemao di fare la sceneggiata. Lo portano in ospedale. Remuzzi era già capo del dipartimento agli Ospedali Riuniti, il Maggiore, oggi Papa Giovanni. Va in reparto per verificare gli esami neurologici effettuati sul calciatore. Racconta: “Non è risultato niente. Nessun danno. Niente di niente. Poi arrivò in ospedale il presidente del Napoli Ferlaino. Come niente, disse. Ma una persona dopo un trauma cranico ve tenuto almeno in osservazione. E così la diagnosi fu lieve trauma cranico”. E da lì la Lega decretò la vittoria a tavolino per il Napoli che quell’anno vinse lo scudetto.
Davide Ferrario è un regista che quando deve girare i film stabilisce il calendario di lavoro in base al calendario dell’Atalanta. “Ma non sono l’unico – racconta – fa così anche Diego Abatantuono. Lui, lo fa con il calendario del Milan”. E sull’amico Abatantuono racconta: “Un giorno disse: smetto di tifare Milan, tifo Atalanta. Lo chiamai e gli dissi: non ti credo. Poi feci preparare una sciarpa dell’Atalanta con la scritta Diego e gliela mostrai. Lui, di rimando: Se la fai vedere in giro non sai cosa ti faccio!”. Ma Ferrario ora si trova difronte a un dilemma. Martedì è chiamato a premiare un’attrice francese a lui molto cara. E si è ricordato che martedì 10 dicembre a Bergamo si gioca Atalanta-Real Madrid. Il medico di Koopmeiners è già preallertato per preparare qualche certificato medico.
Gigi Riva si trova a Sarajevo sotto i bombardamenti. È in casa di un collega ed è in possesso di una radio che prende tutte le frequenze in bassa frequenza per poter intercettare la BBC, che dava notizie utili alla loro causa. Nel cercare le frequenze Riva si imbatte nella musichetta-sigla di Tutto il calcio minuto per minuto e quel giorno gioca Atalanta-Juventus. “È stato come tornare a casa. L’Atalanta per me così lontano da Nembro da quando avevo vent’anni, ha rappresentato le radici del mio territorio”. E poi racconta l’esilarante fatto delle stimmate del Finass. Al bar del paese di Nembro, Finass (Finazzi) era tra i fondatori del Club Amici dell’Atalanta e quando l’Atalanta giocava lui andava allo stadio e stendeva lo striscione in curva Nord. Ma per appendere questo striscione doveva scorticarsi le braccia perché la rete metallica che divideva il campo dagli spalti era cinta da filo spinato. Così il Finass andava a sangue. Da qui le stimmate del Finass.
Donatella Tiraboschi riporta i suoi ricordi di bambina quando col papà andava in Curva Sud. E quando questa è venuta giù per far posto al nuovo che avanza, le ha preso una stretta al cuore che le ha fatto fuoriuscire tutte le emozioni provate ogni domenica sugli spalti.
Lei, di Selvino, racconta di aver palleggiato nientemeno che con Helenio Herrera. In quegli anni l’Inter trascorreva il ritiro precampionato a San Pellegrino, la casa del medico sociale dell’Inter, Angiolino Quarenghi. Ma la sera il mago saliva a Selvino ad amoreggiare e lì, nell’albergo di zio Angelo, Donatella ha potuto vedere da vicino questo grandissimo allenatore, senza sapere chi fosse realmente. Solo con gli anni ha capito quanto era stata fortunata. E poi ricorda i tempi del collegio quando – lei unica ragazza a interessarsi di calcio – all’Atalanta arrivò Cabrini. Il divino adone amato da tutte le ragazze d’Italia. “Ai tempi non esistevano i social – racconta Donatella – e allora le ragazze gli scrivevano lettere d’amore. Più avanti nel tempo ho avuto l’occasione di intervistare la mamma di Cabrini e su questo fatto mi ha confidato che di lettere ne arrivavano a centinaia”. E lei che faceva? Le cestinava.
A Pietro Serina il compito di chiudere la serata. I suoi aneddoti non sono compresi nei racconti delle pagine del libro. Ma si accostano benissimo e spiegano l’idea del Museo che l’Atalanta sta per realizzare. “All’Atalanta non serve un museo dei trofei – dice -. Ne abbiamo solo due. A noi serve un Museo dell’Appartenenza”. E per far capire cosa intende racconta. “Nel 2018 si gioca Crotone-Atalanta. A Crotone non piove mai, ma quel giorno è arrivato un acquazzone che era impossibile stare persino in tribuna stampa, perché non era protetta. Ci misero in sala stampa dove avevano attrezzato la sala con uno schermo per vedere la partita. Ma quando è iniziata la partita io non ho resistito e sono uscito. Mi sono messo in un punto dove si prendeva meno acqua possibile. Ad un certo punto arriva un ragazzino. Mi offre un caffè e si siede accanto. Lo ringrazio e gli dico: puoi andare a ripararti. Risposta: No. Voglio stare qui. Magari divento un po’ bergamasco anch’io”.
L’altro episodio capita subito dopo il Covid. Si va a Cagliari. Mentre si parla tra giornalisti su cosa è accaduto a Bergamo, il dramma di familiari e amici scomparsi, i carri dell’esercito con le bare e tutto lo scenario funesto del periodo, poco distante ci sono due persone che parlano il loro dialetto sardo. “Io non capisco quello che stanno dicendo – dice Serina -. Poi uno mi traduce: quelle cose sono successe a Bergamo perché solo voi potevate uscirne, proprio come ha fatto l’Atalanta”. Questa è l’appartenenza. Questa è l’Atalanta. Questa è la vita di chi tifa Atalanta. Proprio “Come amare una Dea”.