Atalanta tra giustizia e pentimento

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curva_nord_atalantaIl calcio è solo una componente della nostra società. Quello professionistico in particolare ne assorbe i mali e ne amplifica gli effetti in ragione delle penetrazione mediatica di cui è oggetto. Va da sé che, nel momento in cui si consumano a ripetizione episodi di intimidazione e devastazione a carico di squadre e impianti di gioco, la dottrina imperante è quella del “repulisti” a 360 gradi. Chi si macchia di un dolo grave, tanto più se perpetrato in ragione dello sport, deve pagare ed essere allontanato. Si invoca, a ragione, una presa di posizione netta nei confronti di frange che, nei decenni, hanno conquistato potere presidiando e gestendo le curve. In Italia siamo lontani anni luce dalle immagini che giungono dagli stadi inglesi dove, talvolta, i cori di incitamento sommergono le squadre in campo anche quando quella di casa sta soccombendo. Il caso di Bergamo, che nelle ultime stagioni ha fatto discutere e non poco sui rapporti tra società e ultrà, merita un ragionamento particolare. L’Atalanta si è dato un codice etico, che in tanti hanno interpretato come netta volontà di tagliare i ponti con chi esercita violenza contro i tifosi avversari e crea disordini. Così è, infatti. Sarebbe stagliato, tuttavia, pensare di dividere la lavagna in due con i buoni da una parte e i cattivi dall’altra. Troppo banale e sbrigativo. Può valere sulla carta, ben diversamente sul campo e per strada. A Bergamo si è concluso con una serie di condanne un processo per fatti gravi consumatisi lontano dallo stadio e in un contesto diverso, addirittura contro l’allora ministro dell’interno Maroni. Quasi contestualmente si è concluso un iter, di cui pochi erano a conoscenza, che ha visto l’Atalanta Bergamasca Calcio rimettere la querela per fatti accaduti nel 2010 e culminati con l’invasione e danneggiamenti del centro sportivo Bortolotti di Zingonia. Una scelta fatta un mese prima dell’esito del giudizio al Tribunale di Bergamo, ma coincisa proprio con la sentenza. Una scelta che il direttore generale Pierpaolo Marino ha spiegato con la volontà di concedere una opportunità a chi si è macchiato di gesti incivili ma, in quanto incensurato, passibile di recupero. Per quanto accadde nel 2010 non c’è stata condanna, ma i responsabili ripareranno al malfatto offrendo i proprio servizi alla Caritas Diocesana. In casa Atalanta c’è il precedente di Masiello, che ha scontato la lunga squalifica per il calcioscommesse tornando a giocare ma impegnandosi nel contempo a operare nei servizi sociali. La linea della società è chiara, finanche saggia e lodevole se la chiave di lettura è corretta. Forse sono stati sbagliati i tempi, perché è difficile spiegare all’opinione pubblica, nelle ore calde del giudizio, una decisione maturata con il senno del “figliol prodigo”. Il dg Marino, per come lo conosciamo, è votato al dialogo e alla mediazione. Esiliare i violenti o aiutarli a redimersi? Quando non è possibile ricondurre alla ragione gli irriducibili, è tutt’altro che sbagliato dare una seconda possibile a chi vuole rimettersi in riga. Forse è il primo passo per applicare in senso buono il principio dei vasi comunicanti trasformando la violenza fisica e verbale in acceso entusiasmo per i propri colori.

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