Tavecchio, niente di nuovo

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TavecchioL’Italia che fa e disfa, critica e discute, accusa e perdona, ha recitato come da copione l’ultimo atto della telenovela estiva nata dallo sfaldamento del vertice calcistico nazionale, conseguenza del disastro della spedizione azzurra al Mondiale in Brasile. Nel gioco del pallone non esistono i “se”. Ma se l’Uruguay non l’avesse messa dentro e l’Italia di Prandelli avesse passato la fase a gironi per il rotto della cuffia, andando avanti fin dove possibile, probabilmente i vertici federali sarebbero rimasti al loro posto. Tutti aspettavano l’esplosione di Balotelli, eclissato da umori e circostanze che maturano quando il gruppo non c’è. Via Abete, ammesso il fallimento, ecco che la Figc diventa un vecchio partito con le tessere. E siccome quelle dei dilettanti sono la metà più uno, è sembrato logico che Carlo Tavecchio, presidente della loro Lega, si facesse avanti. I calciatori hanno proposto un loro rappresentante, Demetrio Albertini, che pure figurava nei ranghi federali. Ma lo hanno fatto con un criterio troppo sindacale e non sufficientemente programmatico. Cosicché, allorquando Tavecchio è scivolato miseramente sulle banane, richiamando un generico Optì Pobà per indicare uno dei tanti che dal continente nero sbarca nel nostro campionato, forse senza avere le qualità del supercampione, ma dimenticando la legittimità di chiunque venga messo sotto contratto a giocarsi le sue carte, il tema del razzismo ha preso il sopravvento su progetti e obiettivi per rilanciare il nostro calcio. Nella scontata elezione a presidente della Figc di Carlo Tavecchio, che ha raccolto i due terzi delle preferenze al terzo scrutinio, c’è la volontà di mantenere una sorta di Status Quo. E la volontà di cancellare con un colpo di spugna il pesante imbarazzo provocato dall’espressione infelice sul generico calciatore di colore, il quale “il giorno prima di scendere in campo da noi è lì che mangia le banane”. Qualcuno ha etichettato il passaggio come espressione infelice o non voluta. Ma chi governa, anche una federazione sportiva, ha il dovere di soppesare le parole. Tavecchio non è razzista e per difendersi non ha bisogno di ricordare a tutti di aver aiutato i popoli africani a praticare il calcio. Ciò che lui ha prodotto è pura arte della compensazione, dell’equilibrio creato con i piatti della bilancia. La sciocchezza è stata talmente grossa che in qualsiasi Paese civile il suo autore avrebbe dovuto farsi da parte. Non perché non abbia chiesto scusa. Lo ha fatto, senza rendersi conto di vivere nella società della comunicazione e della multimedialità, dove i veleni somministrati digitalmente si diffondono creando danni che neppure l’antidoto più efficace riesce a lenire. Ha voluto fortemente la massima carica federale, ma difficilmente riuscirà a rimuovere gli accenti che il mondo dei media, non solo italiani, gli ha attribuito. E il Tavecchiese, ovvero il suo modo di esporre i concetti, qualche dubbio lo lascia. Al punto da indurre a definirlo Re Travicello, richiamando la poesia di Giuseppe Giusti: Al Re Travicello piovuto ai ranocchi,
mi levo il cappello e piego i ginocchi. Tavecchio si è ritrovato ingigantito dalla sua stessa misera espressione, ma sarebbe bastato prendere atto della inadeguatezza a guidare la Figc. A elezione avvenuta, si è precipitato a sottolineare che vuole essere il presidente di tutti, anche dei dissidenti. Ci mancherebbe pure il contrario. Prenda però atto che si tratterà di una fase di transizione, probabilmente lunga. E che se vuole veramente riscattare la sua scivolata pesante e gratuita, si impegni a condividere i programmi di crescita e valorizzazione dei vivai e ammodernamento degli strumenti e delle strategie di gestione.

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