Pier Carlo Capozzi
Capita spesso di usare il termine “maestro” a
sproposito. Con lui non poteva accadere perché
maestro lo era davvero. Lui è Mino Favini, Fermo
solo per l’anagrafe, considerando le migliaia di
chilometri percorsi per cercare talenti in giro per
l’Italia. Il signor Mino aveva chiuso gli occhi,
travolto da amarezze e dolori, un anno fa. Aveva
perduto la sua Paola, moglie paziente che ha
pensato a casa e figli lasciando libero il suo uomo
di coltivare quella che è stata per lui molto più di
una professione. Ecco, l’unico che poteva vantare
come lui il titolo di maestro era Raffaello
Bonifaccio, il talent scout dei piccolini, quello che
capiva i fenomeni appena abbandonavano il
girello.
Perché Bonifaccio, maestro lo era per davvero. Di
scuola elementare.
Mino invece s’era diplomato ragioniere, passaggio
obbligato perché gli permettessero di giocare a
pallone, abbandonando così il forno di famiglia a
Meda. Mino era un ottimo panificatore, ma il suo
talento sopraffino lo portava sui campi di calcio,
prima da giocatore e poi come scopritore di nuove
promesse. Poi Favini è diventato, da responsabile
del Settore giovanile, prima a Como e poi a
Bergamo, quella leggenda che abbiamo imparato
a memoria.
Come l’elenco dei calciatori da lui svezzati per
farne professionisti d’alto rango.
E per fare la fortuna delle società che l’avevano
scelto per quel ruolo. Durante tutto questo
percorso Mino s’è fatto avanti con le uniche armi di
cui fosse dotato: un’intuizione senza pari, la
convinzione precisa che i calciatori, prima di tutto,
dovessero essere ragazzi educati e studiosi,
un’onestà di comportamento che rasentava
l’inverosimile. Mino era una persona speciale.
Speciale e perbene. Avere stima per lui era
pressoché doveroso. Me ne accorsi subito quando ci
incontrammo al campo di Orsenigo, dove giocava
una partita la Primavera dell’Atalanta con i pari
età comaschi. Su quel campo, che poteva vantare
pochi fili d’erba, nacque un’amicizia che non si
spegnerà mai, proseguita con i figli Stefano e
Giorgio (incredibilmente volato via sabato scorso),
con Francesca (che adorava suo nonno), con
Marisa, compagna di Stefano, con Barbara e
Laura, le nipoti, figlie dell’Eugenio Bersellini suo
cognato. Una bella famiglia, piena di valori, che si
commosse quando la nostra Primavera vinse lo
scudetto battendo l’Inter e i ragazzi, insieme ai
tifosi, scandirono “Mino Fa-vi-ni”, dopo un mese e
mezzo che era volato via. Da lassù Mino avrà
sorriso. Con garbo e soprattutto dentro.