Chi, della generazione dei 60enni, non ha sognato di essere Felice Gimondi? Il suo mito poggia sulla naturalezza e la determinazione con cui affrontava le corse e sullo stile di vita, genuino e sempre fedele alla fierezza dell’essere bergamasco. Lo hanno ammirato le generazioni più giovani, rivisitando le sue imprese, da quella del Tour de France 1965 al terzo successo al Giro d’Italia 1976 passando per lo sprint di Barcellona 1973 che gli ha regalato la maglia iridata superando l’eterno rivale Eddy Merckx. Proprio lui, il cannibale, ha proferito “oggi perdo io” alla notizia dell’improvvisa scomparsa del campione di Sedrina, nel mare antistante Giardini Naxos. Se ne va a pedalare in paradiso colui che più di ogni altro, dopo l’epopea di Coppi e Bartali, ha saputo interpretare il ciclismo nel modo più autentico. Le 141 vittorie da professionista non ne interpretano fino in fondo la grandezza, che le gesta di Merckx hanno contribuito semmai a esaltare. Gimondi è sinonimo di leggenda, ora non più vivente, ma sempre leggenda. Il richiamo che da un quarto di secolo esercita la Gran Fondo che porta il suo nome, avendo come scenario le amate strade bergamasche, è il giusto riconoscimento non solo per la carriera luminosa ed esemplare, ma anche per i valori che l’uomo Felice ha saputo coniugare nella sua vita di sportivo, marito e padre. Felix de Mondi avrà già riabbracciato Gianni Brera che ne ha raccontato la mirabile epopea.