AI e sanità, Leandro Pecchia: “L’OMS indica la strada, possiamo colmare il ritardo accumulato”

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(Adnkronos) – L'Organizzazione mondiale della sanità, con il suo ultimo rapporto World Health Organization (WHO) dedicato alle politiche nazionali sui dispositivi medici, indica la strada da seguire per sviluppare e far diffondere le tecnologie di AI per la salute. Una strada che può aiutare l'Europa, e l'Italia, "a colmare un ritardo che possiamo recuperare e che stiamo recuperando". Leandro Pecchia, Prorettore alla Ricerca dell’Università Campus biomedico di Roma, professore di Ingegneria Biomedica, ha guidato il team che ha coordinato la stesura del rapporto dell'OMS e racconta, intervistato dall'Adnkronos, i passi in avanti e le sfide che legano intelligenza artificiale e sanità.  Quali sono gli elementi di novità del rapporto? "Chiarisce, qualora fosse necessario, che i dispositivi medici sono uno strumento necessario per raggiungere gli obiettivi di salute, quindi salute universale, salute globale e accesso alle cure. E se sono necessari dice sostanzialmente in che modo prenderli in considerazione quando fai la programmazione sanitaria, quindi come fare l'analisi dei bisogni, come fare l'allocazione del budget, come fare la stima delle risorse che ti servono in maniera prospettica per poter usare in maniera sicura ed efficace questi dispositivi. Dice anche come rafforzare i link tra la ricerca e la sanità per quello che riguarda le tecnologie, in particolare l'AI, e quindi dà suggerimenti molto chiari dicendo: guarda che l'AI se fa queste cose, diagnosi, terapia, gestione, è un dispositivo medico e come per tutti i dispositivi medici va gestito da persone che hanno competenze specifiche e qualificate per farlo nel settore della sanità. Poi c'è tutto il capitolo sulla sostenibilità che nella edizione precedente mancava. In questo libro c'è un intero capitolo sull'impatto ambientale dei dispositivi medici, e del sistema sanitario in generale, che va ridotto e quindi ti dà i fondamentali. Che cosa vuol dire ridurre, come definire un kpi e qual è il grado di attenzione che dobbiamo porre a questa tematica. Questa è sicuramente una parte completamente nuova. Il rapporto rivede anche tutta la parte delle human resources legate all'uso della tecnologia. Quindi, evidenzia la necessità di formare anche gli operatori sanitari, altrimenti questa tecnologia non solo non si usa, ma se si usa finisce per essere addirittura potenzialmente rischiosa".  Resta centrale il tema delle competenze e, di conseguenza, quello della formazione. Quanto incide sulle prospettive di sviluppo del sistema?  "Questo libro, quando parla di formazione, pone molto l’attenzione sul bisogno di creare delle menti capaci di continuare a formarsi perché dichiara molto chiaramente, molto onestamente, che la tecnologia per come la conosciamo oggi potrebbe diventare obsoleta in tre anni, quindi non è più possibile dire: queste sono le figure professionali che ti serviranno per sempre. Ma si deve dire: questo è il modo di studiare e con cui tu ti aggiornerai per sempre. Quindi, questo è un cambio di paradigma, un cambio di paradigma che va declinato. Facciamo l'esempio degli infermieri, in Italia. Hanno un'età media elevatissima eppure devono imparare a usare l'AI, ma come fai a insegnare l'AI a una persona di 50, 60 anni e che magari non tocca un libro da 20 o 30 anni? Queste sono le sfide che noi stiamo affrontando come ateneo, come OMS e come società scientifica a livello globale".  Come si porta la tecnologia che nasce nei centri di ricerca e nei laboratori nelle attività quotidiane del sistema sanitario nazionale?  "È un aspetto fondamentale. Noi stiamo facendo degli studi su questo, quello che chiamiamo 'adoption gap'. Bisogna innanzitutto capire quali sono queste barriere reali all'adozione, e ce ne sono diverse, alcune sono di formazione e ne abbiamo parlato, altre sono regolatorie purtroppo. Le regole stanno cambiando, con una velocità senza precedenti. L'Italia è un piccolo paese, dobbiamo cooperare, quindi bisogna immaginare delle strade di affiancamento in cui per esempio sul regolatorio si creino dei meccanismi di affiancamento, usando le università come dei mediatori, degli alleati. Ho avuto la fortuna di sperimentare questo metodo in paesi molto piccoli come l'Irlanda o Singapore. Lì non hai la forza numerica per avere da un lato i produttori e dall'altro i regolatori e allora ci si mette insieme, si creano delle 'sound box' che funzionano, da cui si esce con la regola e col prodotto.  Poi ci sono i modelli di business, perché effettivamente al momento molte tecnologie non si riescono ad adoperare perché non si sa come venderle, non si sa come comprarle, non si sa come fare il collaudo, banalmente non si sa come fare la manutenzione. Nel rapporto dell'OMS c'è un capitolo che per la prima volta parla di manutenzione dell'AI, cioè non solo ti devi preoccupare di comprare una risonanza magnetica, ma di come fare la manutenzione tra un anno e di avere le competenze necessarie. C'è poi tutto il discorso delle filiere critiche, perché non avere degli asset interni che sviluppino AI ci rende vulnerabili verso paesi che hanno, per esempio, un'attenzione diversa ai diritti intangibili. Cioè, tu non puoi derogare all'America o alla Cina lo sviluppo delle AI perché l'attenzione che hanno loro per la privacy, per i diritti umani è diversa da quella che abbiamo noi europei. Abbiamo diritti su cui non vogliamo derogare ma per non essere costretti a dover accettare l'AI cinese dobbiamo investire per tornare a essere leader". 
Cosa insegnano le esperienze che avete fatto in Africa, cosa si può importare di quelle esperienze?
 "Ci insegnano innanzitutto il metodo. Vado in Africa e lavoro a risorse limitate, quando poi torno qui ho un occhio diverso per la sostenibilità, sia economica sia ambientale. L'approccio all'ingegneria frugale, che è quella che noi facciamo in Africa oggi, aiuta a capire quello che è realmente importante e quello che non lo è, quindi tutto quello che noi facciamo in Africa in realtà ci sta aiutando ad affrontare nuove sfide di salute pubblica. In Africa abbiamo progetti su Ebola, sulle vector disease, malattie portate da insetti come la malaria oppure la Zika. Queste tra 4/5 anni saranno una sfida anche per l'Italia, quindi lavorarci lì ci mette in condizione di essere in qualche modo pronti per affrontare queste sfide, se dovessero arrivare".  
In quale modo l'AI può diventare uno strumento che favorisce l'equità?
 "Un problema che hanno enorme in Africa è la carenza di medici altamente specializzati. Hanno diritto ad averne ma mentre li aiutiamo a creare medici più altamente specializzati, abbiamo realizzato delle APP che con l'AI e con un cellulare riescono, per esempio, a capire se c'è un trauma cranico semplicemente dal modo in cui la pupilla reagisce alla luce del flash. Oppure abbiamo creato un'altra APP che ti fa capire se c'è una polmonite distinguendola per esempio da un'asma, quindi semplicemente basandosi su dei sintomi, perché in Africa il laboratorio di analisi sotto casa spesso non ce l'hai. Stiamo facendo un progetto sulla malaria, abbiamo costruito una gabbia intelligente dove entrano le zanzare. Con l'AI capiamo se sono maschi o femmine; le femmine passano nella seconda gabbia e con l'AI capiamo se è incinta oppure no; se è incinta va nella terza stanza, una sala di incubazione, cioè le mettiamo in condizione ideale per partorire, però c'è sotto un fluido che fa una manipolazione genetica. Un'azione fondamentale perché in natura se tu togli un certo numero di zanzare ci sarà lo stesso numero che le sostituisce, quindi ammazzarle non serve a niente, ma favorire la crescita di zanzare geneticamente manipolate, che competono con le altre per nutrirsi ma non trasmettono la malattia, diventa una strategia vincente. Sono gabbie che verosimilmente paracaduteremo in tutta l'Africa. Stiamo lavorando sui prototipi che abbiamo e siamo pronti a risolvere per sempre un problema".  Parliamo di innovazioni e di soluzioni all'avanguardia ma è corretto affermare che sull'AI, in Europa e in Italia, siamo ancora in ritardo? "La risposta secca è sì, siamo in ritardo, è chiaro. Siamo ovviamente in ritardo. È un ritardo che possiamo recuperare? Sì, assolutamente. È un ritardo che possiamo recuperare e che stiamo recuperando. Vedo al momento un'attenzione anche nei policy maker di settore in Italia che non vedevo qualche anno fa: c'è una reazione di sistema e questo mi dà una grande speranza. Perché siamo in ritardo? Beh, perché al momento l'AI è stata prevalentemente guidata a livello mondiale da colossi industriali che in Europa semplicemente non esistono. O, se esistono, si occupano di altro. Allora, una strategia percorribile è che o questi colossi europei comincino a capire che devono investire molto di più in questo ambito. Oppure, facciamo l'altra cosa che credo sia molto intelligente fare, cioè investire su quelle applicazioni di 'AI tailored'. Siamo i campioni al mondo, cioè ci vengono a chiamare da tutti i continenti per farci fare quell'intervento di automazione a quell'impianto che è unico al mondo. Questa è un'opportunità perché abbiamo decine, forse centinaia di situazioni in cui abbiamo bisogno di un approccio che metta insieme l'azienda, il ricercatore, i clinici per trovare insieme la soluzione a un problema. Abbiamo un vantaggio culturale e in questo scenario estremamente mutevole, è un'enorme risorsa. Ce ne siamo resi conto? Abbiamo messo sul tavolo dei progetti ampi? Sì e no, ci sono dei gruppi che lo fanno. Penso al Sant'Anna, penso a tutte gli istituti di alta formazione, allo stesso Campus biomedico. Non siamo secondi a nessuno ma su scala, probabilmente, possiamo ancora farlo meglio". L'obiezione più frequente, forse banale ma che ha un fondamento solido nella realtà, è che l'AI possa eliminare posti di lavoro. Cosa dice la sua esperienza in questo senso? "Non sarà mai l'intelligenza artificiale che ti sostituisce, perché c'è una parte legata al lavoro dei medici, degli infermieri, legata proprio a questioni di empatia, di intuito, di supporto morale, di una parola spesa bene che la macchina non riuscirà mai ad emulare, non riuscirà mai a fare meglio della persona. L'AI, invece, ci deve togliere da dosso quel lavoro che non richiede esattamente tutta la creatività di un essere umano. Certo, alcuni lavori andranno persi. Pensiamo al casellante. Quello non era un lavoro degno dell'uomo e chiaramente quella persona va rieducata e va reinvestita altrove. L’AI o l'automatismo non hanno sostituito quel lavoratore, è quel lavoratore che stava sostituendo una macchina, solo che non lo sapeva ancora". C'è un esempio concreto, un'applicazione di AI a cui avete lavorato che sta svolgendo correttamente la sua funzione, nel senso che ha appena descritto? "Abbiamo fatto un robot mobile, abbiamo usato la piattaforma Spot, il cane-robot della Boston Dynamics, e abbiamo creato una soluzione che va in giro e fa dei campionamenti, cioè prende dei tamponi, ripassa su delle superfici e poi le porta in laboratorio o le analizza direttamente in tempo reale, per capire se lì ci sono patogeni, virus, batteri o funghi. Ora, questa attività tu in Italia non la fai abbastanza perché non hai abbastanza personale. Punto, non c'è molto da aggiungere. Tu oggi non lo fai e c'è una quota di infezioni ospedaliere che è dovuto al fatto che tu non fai questa cosa. Invece la macchina tutte queste operazioni estremamente ripetitive le fa meglio dell'uomo e le fa mentre l'uomo non le fa. Perché non si annoia, non si distrae, non si scoccia, e lo può fare di notte, di giorno, nell'ambiente rischioso. Abbiamo risolto un problema. Ora si tratta solo di far scendere i prezzi o, se qualcuno vuole già fare un investimento, siamo già pronti". (Di Fabio Insenga) 
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