(Adnkronos) –
Jannick Sinner ha perso. Un notizia, perché non succede spesso. Perché ha perso? Ci sono ragioni tecniche, tattiche, a partire dal dato di fatto che chi lo ha battuto, Daniil Medvedev, ha evidentemente giocato meglio di lui. Poi ci sono le polemiche, le strumentalizzazioni, le ricostruzioni pretestuose che a ogni sconfitta vogliono per forza affidare il peso del fallimento, legandolo preferibilmente al gossip e al chiacchiericcio da social. E c’è un tema di fondo. Per Sinner e per chiunque faccia sport a qualsiasi livello va ritrovato ‘il diritto di perdere’.
Adriano Panatta, uno che il tennis l’ha sublimato nella sua carriera, scrive sul Corriere della Sera una cosa particolarmente significativa sulla sconfitta di Sinner. “Esiste una normalità della sconfitta che andrebbe maggiormente rispettata, per non aggiungere inutili mostri a quelli di cui già ci circondiamo. L’imbattibilità non esiste, nello sport in generale e nel tennis in particolare”. Intervistato dal Fatto Quotidiano ne dice un’altra, meno profonda ma altrettanto necessaria. “Tutte puttanate”, scandisce, per liquidare le illazioni che legano il rendimento sul campo alla vita privata, nello specifico alla relazione tra Sinner e la tennista russa Anna Kalinskaja. Sul legame tra sport e sconfitta si è detto e scritto molto ma evidentemente lo si è fatto troppo poco, o non abbastanza, per entrare nella testa di chi sfoga via social il delirio della vittoria a prescindere. Restando al tennis e a Wimbledon, oggi Lorenzo Musetti va in campo in semifinale contro Nole Djokovic. E domani Jasmine Paolini si gioca la finale contro Barbora Krejcikova. Speriamo che vincano tutti e due e speriamo che facciano tutto il possibile per vincere. E se dovessero perdere? Avrebbe meno valore lo straordinario percorso che hanno fatto finora? Sarebbe ridimensionato il talento che hanno espresso? Per rispondere serve riconoscere un concetto basilare ma difficilissimo da metabolizzare. Vince solo uno e gli altri perdono ma non vuol dire che per questo abbiamo fallito. Tornano in mente altre parole importanti. Sono quelle di Giannis Antetokounmpo, eletto due volte miglior giocatore del campionato Nba, e risalgono a poco più di un anno fa. I suoi Milwaukee Bucks sono stati appena eliminati dai Miami Heat al primo turno dei playoff del campionato. In conferenza stampa gli viene chiesto se considerasse fallimentare la stagione. La risposta può essere riproposta ogni volta che prevale l’arroganza e la presunzione di chi lo sport lo conosce poco, come i leoni da tastiera che commentano Sinner. “Oh mio Dio… mi hai fatto la stessa domanda un anno fa, Eric. Tu ricevi una promozione ogni anno, nel tuo lavoro? No, giusto? Quindi ogni anno il tuo lavoro è fallimentare? Sì o no? Ogni anno lavori per raggiungere qualcosa, un obiettivo, una promozione, per essere in grado di prenderti cura della tua famiglia, dargli una casa in cui vivere. E non è un fallimento questo, sono tappe verso il successo. Non ho niente contro di te personalmente, è che ci sono sempre dei passi da fare. Michael Jordan ha giocato 15 anni, ha vinto 6 titoli: gli altri nove anni sono stati un fallimento?”. Una posizione lineare e definitiva. Potrebbe essere adottata come risposta automatica alle sbrigative sentenze da social. (Di Fabio Insenga) —sportwebinfo@adnkronos.com (Web Info)