Nuotare è forse ciò che sappiamo fare meglio sin da quando nasciamo. È un gesto talmente naturale che, mettendo in acqua un bambino di pochi mesi, lo stesso riuscirà a muoversi immediatamente con disinvoltura.
Un gesto quasi necessario per Sara Morotti che, d’improvviso, ha dovuto mettere un punto a causa della depressione che aveva reso un peso il nuoto stesso. Quello sport che l’aveva portata sin sul podio della rana ai Campionati Italiani e che improvvisamente le sembrava soltanto qualcosa di obbligato.
La portacolori dell’In Sport Rane Rosse si è quindi presa il suo tempo e soprattutto ha deciso di lasciare l’agonismo per dedicarsi a sé stessa e alla terapia che, con l’aiuto di una psicologa, l’ha riportata in vasca dopo oltre due anni di stop.
Contro ogni aspettativa la 24enne di Grassobbio è tornata alle origini inserendosi nel mondo dei master e, al Trofeo DDS andato in scena a Milano, ha ottenuto immediatamente il record italiano M25 nella sua specialità prediletta. Un passo in avanti nel proprio percorso, ma non un punto d’arrivo per la giovane bergamasca che punta semplicemente a ritrovare la propria serenità.
Sara, com’è stato tornare a gareggiare dopo due anni di stop?
“È stato molto bello. Rivivere quelle emozioni così adrenaliniche è stata tosta, ma al tempo stesso forte”.
Com’è nata l’idea di tornare in acqua dopo così tanto tempo?
“Non è nata da me e non lo sarebbe mai stato. Quando ho smesso di nuotare sono stata molto male a livello mentale e quindi ho dovuto iniziare la terapia. Dopo due anni e mezzo con la psicologa abbiamo deciso di provare questo ultimo tassello, quindi provare a tornare in acqua, tentare di superare tutte le mie ansie e farlo direttamente in gara”.
All’epoca cosa ha fermato la tua carriera?
“In realtà nulla di specifico. Non ho scelto volutamente di fermarmi, ma ero caduta in depressione. Ciò mi ha svuotata e mi ha impedito di fare qualsiasi cosa, compreso allenarmi, per un periodo abbastanza lungo”.
Avendo avuto modo di gareggiare in compagnia di atlete del calibro di Martina Carraro, Arianna Castiglioni e Benedetta Pilato, quando le vedevi vincere medaglie mondiali e europee non avevi il rimpianto di potercela fare anche tu?
“Da quando ho smesso di nuotare, non ho più guardato una gara, né in tv né sui social. Anzi, ho smesso di seguire tutte le pagine che si occupavano di nuoto e molti miei colleghi. Mi sono staccata da questo mondo perché non avevo pace e sentivo che mi faceva male continuare a essere dentro da esterna. Per questo non c’è alcun rimpianto. Era un periodo che non mi faceva felice nuotare come è sempre stato per tutta la mia vita. Forse grazie a quel periodo sono riuscita a rinascere, cambiare vita e mettere un punto e per questo ringrazio quella fase”.
Dopo avere lasciato l’agonismo, è tornata fra i master. Com’è nata l’idea di iscriversi in questa categoria e vivete le gare in questo contesto?
“Io ho deciso di iscrivermi perché da cinque anni alleno una squadra master. Il mio gruppo ci teneva molto che ricominciassi con loro. Quando la psicologa mi ha lanciato questa sfida, non potevo tornare come agonista, quindi il master era l’unica soluzione possibile. Qui le gare sono veramente un gioco. Il bello è stare assieme, tifare l’uno per l’altro, andare a pranzo o bere una birra tutti insieme. Questo è il vero senso del nuoto, di conseguenza una sfida contro sé stessi”.
È arrivato subito il record italiano nei 50 metri rana. Ti aspettavi questa prestazione?
“Prima di questa gara non avevo mai nuotato. Non sapevo quanto potessi fare e, sinceramente, non sapevo che ci fossero i record italiani fra i master e quali fossero. Con la psicologa ci eravamo preparate per il pre-gara, ma non sapendo cosa sarebbe potuto arrivare, non ci aspettavamo tutto questo clamore per il dopo. Ciò mi ha fatto far un po’ di passi indietro a livello mentale e, per quanto sia molto bello, mi ha messo in crisi questo lavoro”.
Come si gestisce l’attività sportiva con quella lavorativa?
“In realtà per ora non mi alleno tant’è che da quella gara non sono ancora rientrata in acqua e non lo farò sino ai Regionali che affronterò sia a livello individuale che in staffetta. Penso che la mia dimensione fisica-mentale mi permetta di fare le gare, ma non vederla ancora come un’attività sportiva vera e propria”.
Ai tuoi colleghi consiglieresti la terapia anche per migliorare a livello sportivo?
“Sono diversi anni che sono in terapia e sto bene. Non la consiglio solo a chi non sta bene, ma a tutti, perché è una cura di noi stessi. Si deve andar di uno psicologo o di uno psichiatra se servisse. Non l’ho mai visto come qualcosa di brutto, anzi, ho sempre teso la mano a questa professione perché sapevo che mi avrebbe aiutata e quindi mi fa felice che si parli maggiormente di ciò e possa diventare anche qualcosa di normale”.