L’ottavo sigillo di Mario Poletti

684

Rino Fusco

Quella di Tokio è stata l’ottava Paralimpiade di Mario Poletti, tecnico nazionale di atletica leggera paralimpica, il quale si è detto colpito dall’atmosfera delle premiazioni, con tre atleti sul podio in uno stadio vuoto, alla presenza di pochissimi tecnici. Una gioia priva di partecipazione.

forbes

Quale gara le è rimasta più impressa?

I 100 metri femminili T63. Eravamo sul punto, con la nostra delegazione, di invadere la pista, ma alla fine abbiamo rispettato i protocolli. Auspicavamo il fantastico tris, però c’era l’incognita rappresentata dall’avversaria indonesiana, perché di una categoria diversa, ma fatta gareggiare insieme alle T63. La commissione tecnica si era riservata di valutarne la classificazione dopo la semifinale, poi ha confermato l’accorpamento.

In queste otto paralimpiadi lei ha conosciuto l’evoluzione del movimento dell’atletica leggera. Che cosa è cambiato, aldilà dei record e dei tempi, che sono notevolmente migliorati?

Da una parte c’è l’interessamento mediatico. Ricordo che tornando da Barcellona e da Atlanta, nessuno sapeva che i nostri avessero vinto degli ori. Poi c’è stata un’evoluzione dal punto di vista tecnologico, perché io posso ricordare ancora atleti che utilizzavano delle protesi di legno con la gomma nero in fondo. Oggi, il supporto fornitoci dai tecnici dell’INAIL è strepitoso. Hanno acquisito fortissime competenze, anche specifiche, che altri attualmente ci invidiano. Si è creata un’eccellenza sotto l’aspetto tecnico-scientifico e questi 100 metri lo dimostrano.

Un ricordo che si porta dietro di Tokyo?

Devo dire il senso civico della popolazione. Noi siamo stati ospitati per una settimana nella città di Sendai, dove abbiamo svolto gli allenamenti.

Che cosa si prospetta secondo lei per il movimento paralimpico? Si ha la sensazione che questa volta sia arrivata la scossa. Una prima forse l’aveva data Martina Caironi a Londra 2012.

Secondo me, non basta dire che bisogna equiparare le possibilità che hanno gli atleti di fare sport. Mentre per un normodotato a volte potrebbero bastare scarpette e pantaloncini, le condizioni non sono certamente le stesse quando parliamo di carrozzine, di protesi. Sarebbe meglio indirizzare le risorse finanziarie, in parte alle società sportive, in parte a chi possa sviluppare dei progetti, in modo tale da coinvolgere le unità spinali, la scuola, i centri di riabilitazione per le cerebrolesioni. Progetti che delineino un percorso, svolti in maniera capillare, così da riuscire a coinvolgere un alto numero di atleti.