Certi incontri possono cambiarti la vita e non solo dal punto di vista professionale, come quello di Silvia Turani con il rugby.
Prima italiana a essere convocata per una partita con il prestigioso team delle Barbarians, la 28enne di Grumello del Monte rappresenta uno dei pilastri della Nazionale femminile che si sta preparando per l’esordio alla World XV.
In grado di condurre le azzurre ai quarti di finale nella Coppa del Mondo 2022, Turani si prepara ad affrontare la seconda stagione in Inghilterra dove vestirà la maglia delle Harlequins di Londra e proseguirà il proprio percorso di crescita in un paese dove la palla ovale è una vera e propria religione.
Silvia, quest’anno sei passata alle Harlequins di Londra. Com’è nato questo trasferimento e cosa ti aspetti?
“Da questa stagione giocherò per Harlequins dopo aver vestito l’anno scorso la maglia dell’Exeter, un altro club che milita nella Premiership inglese. Il trasferimento è nato perché avevo la necessità di crescere da un punto di vista rugbistico e ho scelto la squadra migliore dove farlo. Mi aspetto di finire il campionato fra le prime quattro e accedere alle fasi finali, mentre come giocatrice mi auguro di avere un buon minutaggio e migliorare ulteriormente”.
Da alcuni anni giochi in Inghilterra dove il rugby è quasi una religione. Quali differenze trovi rispetto all’Italia?
“Questa è la mia seconda stagione in Premiership, ma già prima avevo già giocato in Francia. La Premiership, che da quest’anno si chiama PVR, è un campionato con squadre di buon livello e che si indirizza verso il professionismo. Questo comporta dei contratti per le giocatrici e di conseguenza gli allenamenti si possono svolgere durante la giornata e non la sera, un aspetto che consente di avere un lavoro parallelo part-time o addirittura non averlo. Tutto ciò consente di incrementare il tempo che si trascorre al campo che quello extra utile per analizzare gli allenamenti, le partite così come per passare con le compagne di squadra o da dedicare al recupero. Aspetti che in un contesto come quello italiano passano in secondo piano perché è impossibile offrire così tanto tempo al rugby. Inoltre, per esser professioniste, il campionato consente di giocare partite di altissimo livello ed essendo molto più conosciuto come sport, fa sì che il pubblico sia decisamente più attivo che in Italia. Per una normale partita della regoular season si supera il migliaio di spettatori, in finale credo si siano toccate addirittura le 10.000 presenze. Nel nostro Paese a volte si arriva ad aver un centinaio di persone al massimo”.
Perché in Italia, tanto al maschile quanto più al femminile, il movimento della palla ovale non riesce a sfondare?
“Innanzitutto credo sia una questione storico-culturale perché, a differenza di nazioni come la Francia o l’Inghilterra, il rugby non ha sempre avuto la stessa diffusione in passato e questo fa sì che tale condizione si perpetui anche ora. Inoltre la maggior portata culturale fa sì che in questi Paesi il rugby si pratichi nelle scuole come prima scelta e di conseguenza si ha una generazione di ragazzi molto più sensibile al rugby e disponibile a occuparsene anche fuori. Da un punto di vista della comunicazione, del marketing che della visibilità, sia sui social media che sulle reti televisive, la copertura è maggiore e ciò comporta dei vantaggi, anche se credo che si sta andando verso una maggiore diffusione anche in Italia. Chiaramente all’estero il rugby occupa il posto che nel nostro paese viene occupato dal calcio”.
Sappiamo che tu sei arrivata al rugby in realtà molto tardi. Com’è nata questa tua passione?
“Ho iniziato a giocare a rugby a 21 anni ed ero in Erasmus in Spagna. A una festa ho conosciuto delle ragazze che avevano saltato allenamento come regalo di compleanno per la festeggiata. Una cosa poco concepibile per me che sono sempre stata abituata ad affrontare ogni allenamento nei vari sport che ho vissuto in precedenza. Ho quindi chiesto loro che disciplina facessero e mi hanno risposto il rugby che in parte conoscevo già, visto che mio fratello ci aveva giocato per qualche anno alle superiori e perché a Parma, dove studiavo, ci sono le Zebre che hanno una certa attenzione in città. Nonostante ciò, mai avrei pensato di giocarci e ho chiesto di poter andare ad allenarmi con loro, anche se era l’ultimo allenamento stagionale. Mi sono quindi allenata, ho giocato un torneo a 7 e poi, tornando in Italia, ho cercato una squadra che fosse vicina a Parma. Lì mi hanno indicato il Colorno che, tuttavia, è una delle squadre più forti della penisola. Ho scritto loro una email per capire se potessi giocare, ma non mi hanno risposto. Ho pensato di avere fatto il passo più lungo della gamba, tuttavia verso novembre-dicembre, quando ha iniziato la stagione, ho sentito quella voglia di giocare e quindi li ho chiamati e ho iniziato ad allenarmi con loro”.
Quanto è stato importante per la tua vita questo incontro con il rugby?
“Direi che è stato fondamentale e mi ha completamente cambiato la vita. Nei primi anni, quando non ero ancora in Nazionale, ha iniziato a cambiarmi la vita perché ero in un gruppo con cui interagire per minimo tre volte a settimana, avendo una importante apertura sociale. Anche da un punto di vista pratico le mie giornate sono cambiate visto che sapevo che la sera dovevo andare all’allenamento e quindi sapevo di avere delle ore da dedicare al rugby. Nel corso del medio-lungo termine, è diventato decisivo visto che, se dovevo scegliere un corso di laurea magistrale, dovevo farlo pensando di studiare in una città con una buona squadra di rugby. Avevo iniziato a giocare ad alto livello, con la Nazionale, e di conseguenza tutte le scelte hanno iniziato a essere condizionate da questa disciplina. Il rugby mi ha offerto opportunità che mai avrei potuto immaginare, a partire dal conoscere moltissime persone, visto che una grande maggioranza di quelle con cui attualmente interagisco, vengono da lì”.
Hai mai incontrato dei pregiudizi nei tuoi confronti per affrontare questa disciplina?
“Il primo forte pregiudizio è arrivato dalla mia famiglia quando ho iniziato a giocare. Con il senno di poi è tutto comprensibile visto che si trattava di pensare alla mia incolumità fisica. Capisco lo spavento che questo sport possa creare anche perché è uno sport di contatto. Con il passare del tempo i miei genitori si sono abituati dell’idea di vedermi giocare a rugby e credo siano contenti di questa mia passione. Fuori dall’ambiente del rugby, non ho incontrato così tanti pregiudizi, anche perché tutte le volte che mi è capitato di dire di essere una giocatrice di rugby le persone si sono mostrate curiose e interessate a farmi delle domande. Forse all’interno di questo sport persistono ancora dei pregiudizi nei confronti delle ragazze che giocano a rugby ed è forse questo il grande scoglio”.
Perché consiglieresti a una ragazza di iniziare con questo sport?
“Lo consiglierei perché è divertente, consente di stare con moltissimi amici e amiche. Da un punto di vista genitoriale penso che dovrebbero essere contenti in quanto questo sport consente uno sviluppo motorio interessante, dalla corsa al contatto oltre quello sociale. Per una ragazza più grande lo consiglierei perché è molto interessante, consente di migliorarsi da moltissimi punti di vista, sia tecnico-tattico che quello fisico. È una disciplina molto varia da un punto di vista di preparazione, inoltre permette di creare una rete sociale importante”.
Come hai fatto a gestire il percorso universitario con una carriera agonistica di alto livello?
“Con moltissimo entusiasmo all’inizio perché mi piaceva sia quello che studiavo che giocare a rugby. Mi facevo trascinare dall’entusiasmo che mi consentivano di superare le poche ore dormite per notte oppure le limitazioni alla mia vita sociale. Quando poi quello è un po’ svanito, ho proseguito con una forte disciplina perché per me non esiste saltare un allenamento così come non esiste non essere preparata se devo dare un esame o non studiare se sto facendo una carriera agonistica”.
Sei stata la prima e ora unica italiana a essere convocata dalle Barbarians. Come ti sei sentita nel ricevere un riconoscimento così prestigioso?
“Ancora per poco, ma al momento sono ancora l’unica. All’inizio, quando mi hanno chiamato per invitarmi, giocavo a rugby da due anni. In genere si viene invitati o se si è a fine carriera oppure se se si ha avuto una carriera straordinaria. Ero in palestra e la mia prima reazione è stata ‘non ci vado, deve andarci qualcuno con più esperienza e che se lo merita di più’. Poi alla fine mi hanno detto che volevano me per cui sono andata a Cardiff dove mi sono goduta l’esperienza. Si sta infatti una settimana a preparare la partita essendo giocatrici che vengono da squadre differenti e si gioca poi il sabato o la domenica. Si conoscono molti dei mostri sacri del rugby, avendo modo di conoscerle anche fuori dal campo. Ho costruito relazioni che manterrò sempre, tant’è che lo scorso anno nella Coppa del Mondo ho rincontrato alcune di quelle con cui avevo giocato”.
Qual è il tuo rapporto con la Nazionale con cui ti stai preparando per il Women’s XV?
“Con la Nazionale ho iniziato a giocare abbastanza presto, dopo circa un anno che avevo intrapreso questa strada. Poter vestire la maglia azzurra è un modo per crescere perché da una parte ti alleni con le migliori ragazze del circuito e ti confronti con le migliori compagini a livello globale. Ti consente di fare viaggi stupendi com’è stato lo scorso anno la Nuova Zelanda e lo sarà il Sudafrica, inoltre quando faccio qualcosa per la Nazionale, sto rappresentando l’Italia facendo quello che più mi piace. Quando rifletto su questo aspetto, mi rendo conto di essere molto onorata e avere un grande dovere nei confronti della mia nazione”.
Lo scorso anno hai preso parte anche alla Coppa del Mondo in Nuova Zelanda. Ci racconti questa tua esperienza?
“È stata una esperienza tanto desiderata da una parte perché rimandata a causa del Covid che ha portato quindi a maggiori aspettative, ma anche perché per qualificarci abbiamo dovuto vincere un torneo preliminare. In quest’ultimo periodo io ero infortunata, ma pensandoci, quando riesci a ottenere una qualificazione, rende il Mondiale ancora più importante. La competizione si è svolta in Nuova Zelanda, nazione particolarmente conosciuta per la cultura del rugby oltre ad aver un’accoglienza incredibile. Una esperienza di questo tipo ti porta a vivere per due mesi fuori dal mondo, soltanto con le tue compagne, in cui pensi solo al rugby. È un mondo parallelo, però ho avuto la fortuna di avere mio fratello accanto e questa è stata la ciliegina sulla torta”.
A proposito di Nazionale, quali sono le prospettive per la nuova stagione?
“Con la Nazionale abbiamo il World XV che è stato istituito dalla World Rugby e si terrà a ottobre. Sarà diviso in tre fasce che si giocheranno una in Nuova Zelanda, una in Sudafrica dove ci saremo anche noi e una a Dubai. Affronteremo Stati Uniti, Giappone e Sudafrica. Al termine di questo torneo ognuno rientrerà con il proprio club e poi faremo alcuni raduni in inverno prima del Sei Nazioni fra marzo e aprile e nuovamente il World XV”.
In conclusione, qual è il sogno di Silvia Turani?
“Al momento portare avanti gli studi, e nel mentre trovare qualcosa che mi faccia sentire realizzata e mi faccia sentire nel posto giusto al momento giusto, da iniziare al termine della mia carriera e portare avanti anche dopo”.