Guardi negli occhi Felice Gimondi, 70 anni con la voglia di correre di un ragazzino e un amore indissolubile per le proprie radici, e vedi scorrere i lampi di gioia, passione ed entusiasmo che le sue proverbiali pedalate hanno prodotto in milioni di sportivi. Generazioni di mezzo secolo ne hanno seguito le gesta sulle strade, si sono esaltate ai suoi successi, hanno plaudito quando è finito sconfitto, quasi sempre e solo dal “cannibale” Eddy Merckx. Il giovane campione bergamasco, vincitore del Tour de France 1965, si appresta a tagliare la 70esima tappa di una gloriosa carriera, che non si è arrestata quando ha smesso di correre tra i professionisti perché il ciclismo fa parte del suo Dna e lui resta un simbolo e una bandiera del vero modo di essere corridore. Per un genetliaco così importante gli organizzatori di una delle più prestigiose corse in linea, il Giro di Lombardia, la “classica d’autunno” in programma sabato 29 settembre e che chiude la stagione agonistica in Europa, hanno deciso di spostare la partenza da Milano a Bergamo. Un grande e meritato riconoscimento per chi, ancor’oggi, insegna e promuove la passione per la bicicletta, circondandosi di cicloamatori e fondisti in primavera nella gara che porta il suo nome sulle strade orobiche e lanciando giovani e meno giovani in mountain bike sulle piste ciclabili nel verde della sua terra natia. Felice Gimondi parla di se stesso come avrebbe fatto negli anni ’70, segno che i valori e lo stile sono rimasti quelli di sempre. Valori fondamentali che hanno visto la famiglia partecipe delle sue imprese, sostegno morale e spinta per ripartire. E non poteva essere diversamente per chi ha saputo dare un’anima al suo modo di pedalare ed è considerato unanimemente campione nella vita e nello sport. Nel suo cognome c’è una parte di quel “made in Italy” di cui andare fieri. In Paesi come la Francia e la Spagna, ma anche nel Belgio del suo avversario di sempre e dei tanti emigranti italiani, Gimondi sta al ciclismo come Sophia Loren al cinema, anche se lui rifiuta la patente di notorietà e si sottrae istintivamente alla luce dei riflettori. Gli piace parlare della fatica e di tutta il fiato che bisogna mettere per stare davanti, per non perdere terreno. E se lo sport è maestro di vita, il ciclismo lo è di più. Almeno fino a quando non bari. Sotto questo aspetto, la carriera e il comportamento di Felice Gimondi sono esemplari. L’etica e l’onestà, abbinati alle grandi doti tecniche, ne fanno un eroe dello sport. Una figura di cui c’è bisogno, da additare alle giovani generazioni di sportivi, non solo ciclisti. Il suo palmares è da brividi: 159 vittorie in 14 stagioni di professionismo, la prima volta nella terza tappa del trionfale Tour ’65, l’ultima nel settembre 1978 nel teatino. Iridato nel ’73 con successo allo sprint su Merckx, ha vinto tre Giri d’Italia indossando complessivamente la maglia rosa per 24 giorni, la Vuelta e tutte le più importanti classiche. Su tutti i traguardi che contano c’è la firma di Felice Gimondi, che ha fatto parlare di sé anche sulle note di Enrico Ruggeri e Elio e le Storie Tese. E c’è una canzone, la celebre “29 settembre”, giorno del suo compleanno, brano di Mogol e Battisti che ha segnato l’epoca dei vinile come Gimondi quella della ruota con i raggi.
A colloquio con Felice Gimondi