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Uno scomodo divano

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Stefano Pagnoncelli

Erano le 18.53, di martedì 27 ottobre 2020. C’era già buio fuori, da un pezzo. Malinconico guardavo l’orologio e, contemporaneamente, il mio sguardo si perdeva fuori dalla finestra del salotto. L’Atalanta, di lì a due ore, sarebbe tornata a giocare una gara europea a Bergamo, quasi trent’anni dopo quella gara contro l’Inter in Coppa Uefa. Avrei voluto tanto fosse una serata epica, ma purtroppo non lo sarebbe stata. Io a quell’ora, sarei già stato lì sugli spalti, accanto a mio papà, come da 35 anni -ininterrottamente- a questa parte.
Il mio vivere l’Atalanta non è mai stato virtuale, e non è nemmeno un amore che si può vivere a distanza. La mia Atalanta è stadio, è aria fredda sul viso, è pigiama sotto i jeans per ripararsi dal freddo, è stare stretti sotto un ombrello quando piove, è alzarsi in piedi al gol e cercare lo sguardo complice di papà che urla con te, è passione incontrollabile, palpitazioni, frasi impulsive che non diresti altrove. Per me l’Atalanta non è un telecomando in mano. Non è un replay. Non è primi piani e dialoghi rubati. Non è un urlo da controllare. Il mio morbido divano, quando gioca L’Atalanta, diventa improvvisamente scomodo. Ma in un momento così difficile, dove le privazioni sono necessarie, dove la gente soffre e ha paura, le mie parole possono sembrare irrispettose anche a me che le scrivo. Ma fingerei, a me stesso oltre che a chi legge, se dicessi che star lontano dall’Atalanta sia facile. Non lo è affatto. Ed anzi, è più doloroso di quanto pensassi.
Sentire quella musichetta pre-gara in dolby sorround, provenire dalla mia televisione 4K, non mi ha dato nessuna emozione. Ero naturalmente – e come sempre – molto teso, voglioso di vedere la solita strepitosa Dea degli ultimi anni. Ma per nulla emozionato. Le immagini davanti a me scorrevano veloci, e nella solitudine del mio divano cercavo conforto in mio padre via sms.
Poi però, quasi ad ogni minuto, mi cadeva l’occhio sulla scritta “ATALANTA”, composta dai seggiolini vuoti della tribuna lungo viale Giulio Cesare, ricordandomi ogni volta quanto fossi malinconico. Sarei stato seduto proprio lì, nascondendo una scritta che non avrebbe bisogno di essere letta, se solo ci fossimo noi a colorare -e a dar volume- allo stadio. Durante la partita, il silenzio era assordante, e persino il rumore degli otturatori dei fotografi mi appariva fastidioso e fuori luogo. “Torneremo all’Atalanta, papà, vedrai”, ho risposto via sms. Ma al fischio finale ho guardato ancora fuori dalla finestra. E c’era ancora buio.

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