Sara Simeoni ha segnato un’epoca consentendo all’atletica leggera femminile di entrare in una nuova dimensione, a cavallo fra due decenni dove gli sport olimpici hanno cambiato pelle.
Le tre medaglie conquistate in quattro edizioni della rassegna a cinque cerchi e il doppio record del mondo nel salto in alto ne hanno fatta un’icona da seguire anche per le più giovani.
Un esempio da seguire con grande accuratezza come raccontato nel corso dell’appuntamento di TimeOut Sport Festival, la rassegna organizzata da HServizi e Unica Sport andata in scena al Teatro Auditorium di Barzana.
Quarant’anni dopo Los Angeles 1984, un saltatore in alto è stato nuovamente designato come portabandiera dell’Italia alle Olimpiadi. Avendo già vissuto questa esperienza, cosa consiglierebbe a Gianmarco Tamberi?
“Non penso di dover dare particolari consigli a Gianmarco. Innanzitutto mi fa piacere che l’atletica possa esser nuovamente rappresentata nella cerimonia d’apertura, anche se sono passati un po’ troppi anni. In seconda battuta mi fa piacere che possa esser un saltatore in alto a tenere alti i colori dell’Italia”.
Come ha vissuto quel momento a Los Angeles? Ha sentito la responsabilità del ruolo?
“È stata un’esperienza che mi ha dato qualcosa in più, perché in quel momento non stavo assolutamente bene e non pensavo di poter raggiungere il podio. Il mio obiettivo era quello di superare le qualificazioni, si trattava quindi di un traguardo abbastanza ridotto. La responsabilità di rappresentare lo sport del proprio paese a fronte di numerosi atleti di livello è sicuramente qualcosa di gratificante e probabilmente questo mi ha dato quella forza in più per la gara”.
Lei ha partecipato a quattro Olimpiadi conquistando tre medaglie consecutive. Quando si affronta la finale scatta qualcosa di diverso rispetto alla qualifica?
“La qualificazione, anche se la misura di accesso teoricamente non dovrebbe impensierire più di tanto, non è scontata. Nel 1984 per andar in finale dovevi far 1.95 e abbiamo dovuto farlo, quindi non è a volte nemmeno semplice. Il dover fare per forza alla mattina una misura è un motivo in più di tensione anche se ti prepari a quell’appuntamento. Esser poi in finale ti dà più fiducia perché un peso te lo sei tolto, inoltre diventa una gara a sé. Nella qualificazione non puoi sottovalutare nessuno avversario perché per molti quella è la prova della vita e per questo motivo devi avere uno sguardo a 360° perché un errore può esserti fatale”.
In quattro Olimpiadi disputate sono arrivati un oro e due argenti. Ci sono state delle differenze fra un’edizione e l’altra?
“Ci sono state differenze importantissime. Siccome alla prima partecipazione a Monaco 1972 sono arrivata sesta, l’obiettivo che mi ero prefissata per Montreal era di arrivar almeno quinta. Invece sono riuscita ad arrivar seconda dietro Rosemarie Ackermann che in quel momento era l’atleta più forte al mondo. Non ero da podio in quell’edizione, ma ce l’ho fatta e questo ha portato l’unica medaglia dell’atletica italiana. Nel 1980, avendo già fatto il record del mondo, sono andata con l’obiettivo di vincere la medaglia d’oro. Forte del primato iridato, ero convinta di esser la più forte e per questo avrei dovuto vincere l’oro. E’ stata l’unica volta dove ho sofferto una gara, ma è andata decisamente bene. Los Angeles è stata l’occasione di potermi godere la mia quarta Olimpiade senza eccessive pressioni. Mi sono poi trovata a far la portabandiera e lì l’obiettivo era di superare la qualificazione per dire ‘ci sono anch’io’ nonostante si trattasse della quarta Olimpiade. Invece sono andata ben oltre visto che ho rifatto i 2.00 metri e sono arrivata seconda. A quel punto se ci credevo un po’ di più, magari sarei andata anche oltre”.
Il primo record del mondo a Brescia rimane per certi versi avvolto un po’ nel mistero non essendoci riprese televisive di quell’impresa. Si aspettava in quel momento di firmare il nuovo primato?
“Era una gara per me più tranquilla, anche se dieci giorni prima avevo affrontato una gara in Finlandia con la Nazionale dove avevo testato il 2.01. Mi sono accorta che una dei tentativi che avevo sbagliato non era così male. Così forse mi è rimasto il tarlo di potercela fare, anche se non pensavo assolutamente che sarebbe arrivato a Brescia. Forse l’ambiente, con un campo-scuola gremito di persone, forse l’assenza della Rai che aveva preferito seguire i maschi, mi ha aiutato. A distanza di anni mi è stato regalato un cd contenente la telecronaca di TeleBrescia contenente il mio salto e il commento del professor Sandro Calvesi. Il salto si vedeva nonostante la ripresa non fosse bellissima tecnicamente, ma c’era”.
Guardando al salto in alto femminile odierno, secondo lei giovani come Aurora Vicini e Idea Pieroni potranno un giorno ambire a un posto nel movimento internazionale? E come vede Elena Vallortigara in vista dei prossimi appuntamenti?
“Aurora non l’ho ancora vista saltare, ma sembra promettere bene. Migliorare dipende solo da lei, non da me. Posso solo augurarle di fare bene. Idea la seguo già da qualche anno e deve esser un po’ più convinta in quel che fa. Elena invece so che ha fatto già qualche gara, ma non è ancora riuscita a ingranare. Spero di poterla vedere presto sulle misure che le competono”.