Dino Meneghin ha fatto la storia del basket italiano.
Con dodici scudetti, quattro Coppe Intercontinentali, sette Coppe dei Campioni, due Coppe delle Coppe, una Coppa Korać e sei Coppe Italia, il cestista veneto è uno dei giocatori più vincenti di sempre grazie ai successi ottenuti con Pallacanestro Varese e Olimpia Milano.
A renderlo però indimenticabile sono i trionfi con la Nazionale Italiana con cui ha vinto un titolo europeo e un bronzo olimpico, ma soprattutto quel carattere deciso e saggio.
Una storia tutta da raccontare, come è accaduto a Cisano Bergamasco nella serata di giovedì 29 maggio in occasione dell’appuntamento del Time Out Sport Festival, promosso da H Servizi e Unica Sport.
Quest’anno ha compiuto 75 anni, di cui la maggior parte trascorsi nel mondo del basket. Quanto le ha dato questo sport?
Il basket mi ha fatto scoccare questa passione e tutto ciò è stata un po’ la benzina per andare avanti. Mi ha indicato un po’ la strada su cosa fare dopo gli studi ed esser diventato professionista, mi ha permesso di crearmi una professione. Oltre a ciò ho potuto girare il mondo, conoscere nuove persone, imparare le lingue, incontrare nuove realtà e capire esattamente come funzionano, soprattutto in altri paesi, dall’America all’Asia. L’unico continente che non ho visitato è l’Africa, ma per il resto ho visto un po’ tutto. Questo mi ha permesso di aprire la mente, oltre ad avere la possibilità di giocare con grandi squadre, giocatori, allenatori e imparare a sentirmi un gruppo unito che impari a vincere.
Chi è stato il cestista più forte con cui ha giocato?
Eh, è difficile dare una risposta. Ho giocato prima a Varese e poi a Milano. Erano tutti grandissimi giocatori secondo me. Scegliere un solo nome, farebbe torto a tutti gli altri.
La sua carriera si è divisa principalmente fra Varese e Milano. Perché non è mai uscito dalla Lombardia?
A Varese sono arrivato quando avevo otto anni perché mio padre si è trasferito per lavoro, nel 1958. Lì ho conosciuto il basket e ho iniziato a giocare per la Pallacanestro Varese, sino agli Anni Ottanta. Quindi Varese è stata una scelta, per fortuna, che ha fatto mio padre, e che mi ha salvato. Dopo che Varese ha deciso di ringiovanire la squadra, sono passato a Milano dove vivo ancora oggi e dove ho giocato ancora undici anni. Ho fatto infine tre anni a Trieste, dal 1990 al 1993, ma per il resto sono rimasto sempre in Lombardia, una regione che mi ha dato tantissimo.
Qual è stato il suo rapporto con il tecnico dell’Olimpia Dan Peterson?
Ho una grandissima gratitudine per coach Peterson, ci sentiamo spessissimo ancora oggi qui a Milano. A lui devo molto, perché ha creduto in me perché, quando sono arrivato a trent’anni, pensavo di esser un giocatore finito. Mi stavo guardando in giro per capire cosa fare e lui, chiamandomi da Milano, mi ha dato quell’iniziale fiducia che mi ha permesso di giocare ancora per così tanti anni. Lui è una persona seria, moralmente generosa, di poche parole, ma molto incisive, insomma, un grande psicologo. Conosce il basket europeo come pochissime altre persone e ci ha sempre fatto sentire importanti, dal primo giocatore all’ultimo panchinaro, facendoci rendere sempre al meglio. Peterson è una persona che ha ottenuto più lauree nella sua carriera e, a quasi novant’anni, continua a essere attivissimo sui social, sui giornali, nelle presentazioni. Fa ancora oggi conferenze di team building nelle aziende ed è una persona attivissima.
Qual è il successo più bello della sua lunga carriera?
Ho avuto la fortuna di giocare con grandi squadre vincendo tantissimo, però se dovessi scegliere direi il primo scudetto con Varese vinto a diciannove anni. Era una squadra giovanissima e all’inizio ci davano spacciati per la retrocessione. Alla fine abbiamo vinto il campionato con grande sorpresa di tutti, e anche nostra, onestamente. Poi l’anno successivo è quando abbiamo vinto la Coppa dei Campioni a Sarajevo contro l’Armata Rossa. Quello ci ha dato una dimensione internazionale, sia a me che alla squadra. Un altro risultato importantissimo sono stati gli Europei vinti nel 1983 con la Nazionale di Sandro Gamba, mentre nel 1987 abbiamo vinto un’altra Coppa dei Campioni con Milano che l’attendeva da vent’anni. Infine nel 1990, a quarant’anni, ho giocato con Trieste con mio figlio Andrea che aveva sedici anni ed esordiva con Varese. Abbiamo giocato contro per due volte, una a Varese e una a Trieste e abbiamo vinto una volta a testa. In conclusione non posso dimenticare il primo scudetto vinto a Milano a trent’anni. Anche io, come ti ho detto prima, pensavo di essere ormai agli sgoccioli. Anche il pubblico, i tifosi di Milano, non mi vedevano di buon occhio perché ero stato per tanti anni un giocatore di Varese che era l’arcinemica di Milano. Avevo vinto tante partite contro di loro decisive per l’assegnazione del campionato. E quindi ho fatto fatica a guadagnarmi la fiducia dei tifosi. Però alla fine, piano piano, guardando il mio impegno in campo, alla fine del campionato abbiamo vinto lo scudetto. Da lì è sparita la diffidenza che c’era nei miei confronti.
Come si è sentito ad avere di fronte suo figlio Andrea come avversario?
Prima di tutto mi sono sentito vecchissimo. E quindi quando l’ho visto zampettare in campo, mi sono detto ‘Guarda Dino, ormai ho tempo di smettere. Se c’è già tuo figlio che gioca, è ora che tu faccia qualcos’altro’. E’ stata però allo stesso tempo una grande soddisfazione nel vederlo in campo in prima squadra. Perché lo spazio se l’era guadagnato, non perché si chiamasse Meneghin, ma perché era bravo. Già cominciava a far vedere quanto fosse bravo nonostante avesse solo 16 anni. Quindi poi l’ho visto in campo, c’era grande attesa per il fatto che non è una cosa abituale vedere un padre che gioca contro il figlio. C’era grande attesa da parte di giornali, televisioni e quant’altro. Devo dire che è stata comunque una soddisfazione e al tempo stesso una sensazione proprio di orgoglio. Però lui quando è entrato in campo giocava come se dovesse giocare con chiunque, senza guardare in faccia a nessuno. Infatti racconto sempre questa cosa: loro in attacco, noi in difesa. Loro tirano, prendo un rimbalzo e sento uno che mi salta sulla schiena perché cercava di prendermi il pallone. Allora mi giro e dico ‘Ma chi è questo qui?’ E vedo che è Andrea, mio figlio. Allora mi è scappato un sorriso perché ho capito che lui giocava con una determinazione e la forza mentale necessaria per essere un buon giocatore. Quindi ho pensato ‘Questo diventa un bravo giocatore’.
Lei è stato scelto per l’NBA ad Atlanta, ma poi non si è mai trasferito negli Stati Uniti. Ha il rimpianto per non aver perorato questa scelta?
Vedi, non è come oggi che vediamo le partite in televisione e abbiamo notizie sull’NBA. I giocatori e allenatori italiani giocano lì e molti provenienti dall’NBA vengono nel nostro paese. Nel 1969, quando mi ha scelto Atlanta, le partite non si vedevano. C’era qualche articolo su qualche rivista specializzata, qualche racconto degli americani che venivano da noi, ma niente di più. Per cui parlare di NBA era come parlare di Marte. Sono venuto sapere che Atlanta mi aveva scelto dopo un mese/un mese e mezzo leggendo i nostri giornali. Nessuno di Atlanta mi aveva avvisato e per questo mi è rimasto un grande impianto per non aver provato. Poi nel 1974 i New York Knicks mi avevano inviato una lettera d’invito per partecipare alla Summer League, ma mi ero appena rotto il menisco, quindi non ho potuto partecipare e la cosa è morta lì. Resta comunque un po’ il rammarico per non aver giocato in NBA, il sogno dei giocatori di tutto il mondo perché lì è La Mecca del basket, un vero e proprio Paradiso. Come ho detto più volte, ci andrò in un’altra vita, e se non mi chiamassero, vado io con la borsa.
Perché l’Olimpia non è più competitiva a livello europeo come ai suoi tempi?
Secondo me è dovuto al fatto che è aumentata la concorrenza. In Europa ci sono 3/4/5 potenze del basket provenienti da Grecia, Turchia, Madrid o Barcellona. Aumentando le concorrenti, diventa più difficile primeggiare e poi vincere. Quindi è solo una questione di saper scegliere i giocatori e saper come spendere i soldi a disposizione. Perché allenatore e giocatori non si possono discutere, ma evidentemente la squadra ha bisogno di qualcosa in più. Devo dire che Milano quest’anno è stata sfortunatissima perché ha avuto sempre piccolo o grandi infortuni. E questo allenarsi poco e mai a ranghi compatti, impedisce di preparare al meglio questa tipologie di partite. Quindi è stata una continua rincorsa per la forma migliore, anche perché l’Eurolega è talmente complicata che ogni errore viene pagato duramente. Penso che Milano, per quello che investe, per il nome della società, lo sponsor e quant’altro, si meriterebbe di arrivare almeno alle Final Four, però abbiamo visto come infortuni e partite disgraziate quest’anno non le hanno permesso di rimanre fra le prime. La speranza è di rivederla già il prossimo anno protagonista, così i giocatori non si continueranno a sentirsi dire che Milano non vince una Coppa dai tempi di McAdoo, D’Antoni e Meneghin.
Qualche giorno fa la Lega Serie A ha dato il premio di miglior giocatore, intitolato a lei, a Miro Bilan. Un po’ le ricorda il Meneghin dei suoi tempi?
Devo dire che Bilan l’ho visto crescere anno dopo anno. L’ho visto la prima volta quando giocava a Sassari, mi piaceva perché è completo, ha buona tecnica, sa giocare sia spalle che faccia a canestro. Ha un buon tiro da fuori, è un buon difensore. E’ proprio un uomo squadra, soprattutto. Non è un egoista, di quelli che dicono ‘se prendo il pallone tiro solo io’. Lui gioca anche per la squadra. Mi piace come atteggiamento in campo, è sempre tranquillo, mai sotto alle righe. Per certi versi, ogni giocatore ha le proprie caratteristiche, per cui non amo fare paragoni. Però devo dire che lui come tipo di gioco, come personalità, atteggiamento in campo, oltre che la tecnica, mi piace molto.
Dove può arrivare il basket italiano nei prossimi anni?
La pallacanestro italiana è fatta di ottime società che investono, considerate anche i tempi economici non eccelsi. Investono nei settori giovanili, fanno la loro attività maschile e femminile. Quindi c’è comunque un ottimo movimento, pensando anche ai tanti bambini che giocano a minibasket, dove ci sono buoni allenatori. Quindi la tecnica dei giocatori giovani aumenta anno dopo anno. Il problema loro è trovare poi lo spazio necessario in Serie A. Parlo di Lega 2, di Serie A, dove ci sono tanti americani, quindi emergere è sempre molto più difficile. Quindi i nostri giovani devono imparare a lavorare ancora di più, così da far vedere agli allenatori che loro valgono quanto gli americani, quindi meritano il spazio. Ci manca a livello internazionale, come parlavamo prima, una vittoria nelle coppe internazionali. In Eurolega, Champions o qualsiasi altra cosa, per mettere proprio un punto esclamativo, una conferma della bontà del nostro basket. E poi c’è la Nazionale che è la locomotiva del nostro movimento. Aspettiamo tutti che faccia vedere grandi cose, che possa ottenere grandi risultati. Per dare soddisfazione a loro, che chiaramente ci lavorano e ci mettono l’anima, a noi i tifosi, ma soprattutto a tutto il movimento. Così farà vedere all’estero che c’è una grandissima forza anche qui in Italia. Anche qui è sempre più difficile, perché quando giocavo io negli anni 60, 70, 80, c‘era l’Unione Sovietica, la Jugoslavia, noi, la Spagna e poco altro. Poi con la disgregazione dell’Unione Sovietica e della Jugoslavia, sono aumentate le concorrenti. Perché ora ci sono la Lituania, l’Estonia, l’Ucraina, la Georgia, la Serbia, la Croazia, la Slovenia e il Montenegro, per non parlare di Francia, Germania, Turchia, Grecia e Israele. Purtroppo la concorrenza è spietata, quindi se non arrivi forte, preparato e pronto, rischi di fare brutta figura. Noi abbiamo bisogno di un grosso risultato della Nazionale per far vedere quanto sia bello il nostro sport.