Addio a Franz Beckenbauer, la “Grande Anima” del calcio tedesco

Il campione teutonico si è spento all'età di 78 anni dopo una malattia che lo aveva costretto al ricovero in ospedale nelle ultime settimane.

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Non è necessario alzare la voce per farsi sentire. Basta un silenzio posto al momento giusto per riuscire a trascinare chiunque, anche nelle battaglie più complicate.

Lo sapeva bene Napoleone Bonaparte che ha ottenuto alcune delle sue più celebri vittorie anche solo dando l’esempio alle proprie truppe, lo sapeva anche Franz Beckenbauer, simbolo di quella Germania Ovest capace di vincere tutto negli Anni Settanta e scomparso nella giornata di lunedì 8 gennaio all’età di 78 anni.

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Campione del mondo nel 1974 da giocatore e da allenatore nel 1990 (impresa riuscita solo al francese Didier Deschamps e al brasiliano Mario Zagallo, venuto a mancare tre giorni fa), il “Kaiser Franz” ha imparato sin da bambino come la caparbietà, ma soprattutto l’intelligenza siano ingredienti fondamentali per primeggiare e adattarsi ai vari mutamenti della società.

Figlio della guerra, di una Germania dove la buona volontà non basta per spazzare via le macerie dei bombardamenti alleati e un passato talmente infamante da esser difficile da cancellare, il piccolo Franz cresce nel mito del Bayern Monaco e di quella Nazionale che nel 1954 compie il cosiddetto “Miracolo di Berna” distruggendo le certezze dell’imbattibile Ungheria di Ferenc Puskas. Proprio quel pragmatismo contrapposto alla fantasia degli avversari temprano il giocatore dei bavaresi che nasce come mediano, ma pian piano si sposta verso la porta amica diventando la figura del libero per eccellenza.

Un ruolo che nel calcio frenetico di oggi è ormai scomparso, ma che all’epoca ha rappresentato un vero e proprio cambiamento, vestito soltanto da chi, senza disperare, sapeva guidare come un direttore d’orchestra una squadra intera coprendo le falle dei compagni di reparto in caso di necessità, ma soprattutto diventando l’ultimo baluardo in caso di grave pericolo. Una responsabilità enorme, da portarsi sulle spalle come un Atlante calcistico che invece che il mondo sulle spalle si ritrova la coscienza di dieci uomini accanto a lui, ma soprattutto che deve dimostrare di avere il coraggio di un Diomede, devoto al sacrificio anche oltre i propri limiti fisici.

Indimenticabile è la sua immagine con il braccio fasciato nella semifinale con l’Italia dei Mondiali 1970 a causa di una frattura alla clavicola che costringerebbe chiunque ad abbandonare il campo. Non chi sa fiutare il sapore della storia, il clima di quella che diverrà giustamente la “partita del secolo” vinta dagli azzurri ai supplementari per 4-3. Sacrificarsi significa anche infondere fiducia quando di fronte a te hai l’Olanda di Johan Cruijff, irresistibile con il gioco a zona nel 1974, ma costretta ad arrendersi di fronte alla Germania del Kaiser Franz. Oppure quando da allenatore ti ritrovi di fronte l’Argentina di Diego Armando Maradona, galvanizzata dal successo sull’Italia in semifinale nella bolgia di Napoli, ma costretta ad abbassarsi nel 1990 alla legge del pragmatismo teutonico.

Dopotutto, volendo ben guardare, sia da calciatore che da allenatore, Beckenbauer ha vinto la sfida degli Anni Settanta con Johan Cruijff, molto più estroso in campo quanto nella vita, innovatore e “sfacciato” quanto serve, ma troppe volte costretto a lasciare spazio al puntiglioso Bayern Monaco e a quella Germania divenuta per decenni l’incubo di tutti coloro che si apprestavano ad affrontare una competizione internazionale.

Con Franz Beckenbauer se ne va quindi un’epoca racchiusa in quelle immagini in bianco e nero che, per chi è nato negli Anni Novanta, significa semplicemente un reperto da studiare e ristudiare per imparare a essere vincenti. Perché per esser carismatici non è necessario essere spregiudicati o sopra le righe, basta semplicemente avere una grande anima come quella del Kaiser Franz.