Brasile, armata Brancaleone

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brasile germania ap-2In Italia non è ancora scoccata la mezzanotte di martedì 8 luglio quando allo stadio di Belo Horizonte cala il sipario sulla più drammatica rappresentazione calcistica che abbia visto protagonista il Brasile. Ma l’incredulità e l’angoscia si erano impadronite dopo solo 29’ minuti di gioco del pubblico verdeoro e di un’intera nazione, fermatasi per assistere alla semifinale mondiale della squadra di Scolari. Cinque gol al passivo con i tedeschi che si prendono gioco delle pedine difensive e fanno il tiro al bersaglio verso la porta di Julio Cesar, che nel solo primo tempo vede i suoi compagni concedere dieci limpide occasioni agli avversari e alla fine ne insacca sette. Nella ripresa il portierone inerme esce un paio di volte alla disperata sui piedi dei tedeschi lanciati in contropiede, interrompe l’ultimo passaggio e alza sulla traversa un pallone destinato a gonfiare il sacco. Il gol della bandiera di Oscar al 90’ serve solo ad aggiornare il tabellino, cancellare lo zero dalla casella ma non l’umiliazione di una scuola di calcio e di un’intera nazione. La Germania, si direbbe a Roma, asfalta i brasiliani con una facilità incredibile. Le assenze forzate di Neymar, eliminato dalla ginocchiata rupestre di Zuniga, e Thiago Silva, perno della difesa squalificato, non bastano a giustificare l’onta destinata a passare alla storia. Il ct Scolari prende una topica pazzesca, rinunciando di fatto alla linea mediana e consentendo ai tedeschi di avanzare sulla trequarti con devastante facilità. Corsa e fisicità degli uomini di Low diventano ostacolo insormontabile per una squadra irriconoscibile, disposta male tatticamente, arrendevole e svuotata psicologicamente. Il massacro è totale. Lo spettacolo, sportivamente parlando, lugubre e destinato a segnare intere generazioni. Il sogno va in frantumi nel modo peggiore. In ogni circostanza ci sta perdere, mai però nel modo in cui lo ha fatto il Brasile. I giocatori verdeoro hanno evidenziato limiti e confermato in taluni casi la mediocrità tecnica e lo scarso valore. Dietro la peggiore debacle che si potesse immaginare c’è un insegnamento che vale anche per il calcio italiano. Il campo non regala alcunché e nessun tabellone va in discesa, tanto più per chi gioca in casa e presume di essere superiore a qualsiasi avversario. Quel che emerge dalla pesantissima lezione inferta dalla Germania è la disciplina come assoluta arma vincente. Giocatori di samba e funamboli finiscono spazzati via da forza e tempra di una squadra coesa e determinata, per niente disposta a fare sconti. E’ la legge dello sport che arriva a rinfrescare la memoria di chi si è abituato a discutere di calcio a tavolino.

Domenica 13 aprile allo stadio Maracanà scende in campo la Germania, che guadagna così l’ottava finale mondiale. La prima nel 1954, quando contro ogni pronostico l’undici teutonico reduce dalle pesanti ferite della guerra rimontò l’Ungheria di Puskas conquistando il primo titolo. Dopo lo smacco subito nel 1966 dall’Inghilterra con il gol fantasma ai tempi supplementari, il ritorno al successo in casa nel 1974 contro l’Olanda di Crujiff. Nel 1982 in Spagna la Germania cede all’Italia di Bearzot e quattro anni dopo arriva ancora secondo alle spalle dell’Argentina, a sua volta sconfitta nella finale di Roma che valse il terzo titolo ai tedeschi. Nel 2002 la Germania si arrende al Brasile del fenomeno Ronaldo. Poi ha sempre centrato le semifinali. La Germania versione 2014 è figlia dell’Under 21, ma si avvale ancora di gente come Miro Klose, che con il gol personale segnato al Brasile diventa il supercannoniere di sempre nella storia dei mondiali di calcio.

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