Chi l’avrebbe mai detto che l’album delle figurine Panini sarebbe diventato un elemento fondamentale per la ricerca scientifica alla lotta contro la SLA, la terribile malattia che porta il nome di Sclerosi laterale amiotrofica. Quella malattia che non ti fa muovere, non ti fa parlare, non ti fa deglutire e non ti fa respirare e che piano piano, giorno dopo giorno ti ruba la vita. Per questa malattia non c’è medicina, ancora.
E cosa c’entrano le figurine Panini in questa ricerca? C’entrano nella misura in cui nel 2020 Elisabetta Pupillo, capo dell’Unità epidemiologia delle malattie neurodegenerative dell’Istituto Mario Negri, ha pubblicato uno studio che mette in relazione questa malattia con il gioco del calcio. Passando in esame 23.586 calciatori, individuati tramite gli Almanacchi Panini, che hanno giocato in serie A, B e C dalla stagione 1959-’60 fino a quella del 1999-2000, ne è scaturito un risultato sorprendente: lo studio ha individuato 34 casi di SLA, rispetto ai 17 attesi (secondo i dati di incidenza della malattia). I più colpiti sono risultati i centrocampisti: 15; più del doppio degli attaccanti: 7; mentre i difensori sono 9 e i portieri 3. Il rischio di SLA tra gli ex calciatori è risultato essere circa 2 volte superiore a quello della popolazione generale, e il rischio sale addirittura di 6 volte analizzando la sola Serie A. Si è verificato, inoltre, che i calciatori si ammalano di SLA in età più giovane (45 anni) rispetto a chi non ha praticato il calcio (media europea: 65.2 anni).
Lungi dallo studio della dottoressa Pupillo demonizzare il gioco del calcio. È da evitare assolutamente l’equazione: giochi a calcio, dunque ti ammali di SLA. “I nostri dati confermano che non vi è alcuna associazione tra le squadre in cui i calciatori hanno militato e l’insorgenza della malattia – aggiunge Elisabetta Pupillo -. Altri studi condotti insieme a colleghi europei e americani però ci inducono a pensare che la causa non sia il gioco del calcio in sé, ma una serie di concause, ancora da definire nei dettagli. Tra queste ricordiamo il ruolo dei traumi, l’attività fisica intensiva, una predisposizione genetica e altro ancora. Ogni fattore potrebbe avere un ruolo ad oggi ancora non chiaro”.
Intanto c’è da dire che lo studio sui calciatori è stato facilitato dall’avere a disposizione una banca dati formidabile: precisa, completa ed estesa formata dagli Almanacchi Panini. Non c’è sport che abbia una pari banca dati: non la boxe, non la scherma, non il rugby, non il Football americano. A questo si aggiunga la difficoltà dello studio dovuto alla mancanza di fondi.
“Per fare questo studio sul calcio italiano – dice la dottoressa Pupillo – ho impiegato sette anni. Con un adeguato finanziamento potevano bastarne due”. E questo dice anche di quanto tempo si stia perdendo.
Ora il team della dott.sa Pupillo ha ricevuto un finanziamento dalla My Name’5 Doddie Foundation per comparare gli studi del calcio italiano con il calcio inglese. Un articolo di presentazione degli obiettivi di questo studio è stato presentato martedì 26 novembre sul Daily Record, giornale scozzese.
“Questo studio – spiega la dott.sa Pupillo – ci permetterà di accedere agli almanacchi del calcio inglese e di poter acquisire i certificati di morte di tutti i giocatori deceduti. Sarà interessante comparare le informazioni sui calciatori inglesi con i dati già in nostro possesso dei giocatori italiani”.
Il giornale sottolinea che “questo finanziamento consentirà al team di accedere ai certificati e di completare la loro analisi. Anche la Motor Neurone Disease Association e la Darby Rimmer MND Foundation stanno finanziando la ricerca”. Il giornale ricorda inoltre che “Doddie Weir, rugbista, che ha sommato 61 presenze nella Nazionale di Scozia, è morto all’età di 52 anni nel novembre 2022 dopo una battaglia di sei anni contro la SLA”. Ma del rugby diventa impossibile condurre una stessa indagine mancando i dati complessivi.
Per quanto riguarda la malattia in Italia, la dott.ssa Elisabetta Pupillo, in un recente intervento ha presentato i risultati ottenuti dalla ricerca. Se ne deduce che i pazienti più colpiti sono prevalentemente uomini (64,9%), con un’età media di 63,5 anni. La diagnosi arriva a circa 58,5 anni, con un ritardo diagnostico di un ann. Tra i pazienti, il bisogno più urgente è quello di trovare una cura (95,5%), seguito dalla scoperta dei fattori di rischio (72,1%).
“Questo studio – conclude Elisabetta Pupillo – ha posto le basi per ulteriori indagini con collaborazioni internazionali, volte ad approfondire le nostre osservazioni attuali. Abbiamo una grossa responsabilità e vogliamo andare fino in fondo”. Naturalmente c’è bisogno di fondi, altrimenti tutto rimane legato alla sola buona volontà e al poco tempo libero che rimane.