Nosce te ipsum. Conosci te stesso è il concetto che si rifà all’oracolo di Delfi dell’antica Grecia, di cui il filosofo Socrate ne fu il principale interprete. “Conosci chi sei” attraverso l’arte della maieutica. Come la levatrice aiuta a partorire, Socrate attraverso il pensiero filosofico aiutava i suoi allievi a scoprire da sé le bellezze dell’anima e a generare nuova vitalità. Questa premessa serve per introdurre il concetto contemporaneo, applicato allo sport, ma non solo, della pratica di chi di mestiere fa il mental coach.
Ne abbiamo parlato con Nicola Bonfiglio, di origini siciliane, che pratica questa professione e che approccia il mondo sportivo e quello manageriale delle diverse professioni. Un corso sulla comunicazione lo ha folgorato e da quel giorno ha cambiato mestiere divenendo uno fra i mental coach più richiesti in ambito sportivo in Italia.
Chi è il mental coach e cosa fa?
“Il mental coach – spiega Bonfiglio – è colui che fa emergere le potenzialità dell’interlocutore. È colui che ti aiuta a gestire situazioni di vita difficili. Ti permette di focalizzare alcuni obiettivi che devi porti nella vita. È un lavoro che va fatto sulla persona, individualmente, e che mette in connessione mente e corpo. Solo così una persona riesce a gestire le emozioni e situazioni da stress. È sempre la testa che governa il corpo. E qualcuno ti deve accompagnare”. Questo fa il mental coach.
Di solito da chi viene interpellato per fare questo tipo di lavoro?
“Ci sono società di club illuminate che richiedono l’intervento del mental coach per lavorare sulla squadra. Anche se poi, dopo un primo approccio generale, occorre passare sempre a un livello individuale, in quanto ogni persona ha caratteristiche diverse e problematiche diverse. Di solito, invece, vengo chiamato da giovani calciatori, a volte anche da professionisti, o allenatori i quali chiedono come aumentare il loro rendimento. Lì il lavoro si concentra sull’analisi dell’uomo nella sua integrità, che va oltre la prestazione eseguita sul campo”.
Alcune società, come la Juventus, ricorrono al metodo dell’ipnosi. Lei usa il sistema dell’ipnosi nel suo lavoro?
“Sì, utilizzo l’ipnosi da performance dove ci si concentra sull’aspetto interiore e non solo su quello esteriore. L’ipnosi aiuta a lavorare sui punti di forza. Niente a che vedere con l’ipnosi da spettacolo televisivo alla Giucas Casella, per intenderci”.
Ci sono tematiche che toccano i calciatori in modo negativo. Per esempio, un grave infortunio (vedi Scalvini) che fa perdere al giocatore l’appuntamento con un grande evento come l’Europeo. Come si lavora in questi casi?
“Ricordiamo anche il caso Fagioli, o il caso di Ilicic, per ricordare due tematiche diverse tra loro ma altrettanto complesse. Lì il problema è superare la rabbia iniziale dell’aspetto negativo che ti avvolge istantaneamente e ti fa vedere tutto nero o ti fa cadere in una depressione e cercare di uscirne trasformando il problema in un punto di forza. Il punto di partenza è: come posso uscire più forte di prima? Ma esistono situazioni anche più normali, ma altrettanto stressanti. Pensiamo a cosa un giocatore vive intimamente quando entra in uno stadio di 50 mila persone che ti fischiano se le cose non vanno bene. O che viene bersagliato sui social quotidianamente. Il mental coach ti aiuta a gestire le emozioni, a non essere in balia del mondo esterno, a rimanere concentrato sul tuo obiettivo. È sempre, come dicevo, un rapporto equilibrato tra mente e corpo. Devo riuscire a cambiare il mio stato d’animo da negativo a positivo. Il mental coach deve capire chi ha difronte per sapere quali corde toccare per far reagire il soggetto e trasformare le azioni di vita sempre in modo positivo”. Appunto, come si diceva all’inizio il mental coach è il novello Socrate dell’era contemporanea.