Ryder Cup, i ricordi di Costantino Rocca: “È come i Mondiali. Vorrebbero giocarla tutti”

Il fuoriclasse di Almenno San Bartolomeo ha ripercorso la propria carriera nel corso di una lunga intervista rilasciata al sito "Vita Sportiva"

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La quarantaquattresima edizione della Ryder Cup si è aperta al “Marco Simone Golf Club” nella mattinata di venerdì 29 settembre segnando un momento storico per il golf italiano.

Per la prima volta nella sua storia ultracentenaria, la Ryder è arrivata nel Bel Paese regalando le emozioni irripetibili, come ricordato anche da Costantino Rocca, al via di tre edizioni (1993,1995, 1997) vincendo le ultime due con il team Europa.

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Il fuoriclasse di Almenno San Bartolomeo ha concesso una lunga intervista al sito di informazione sportiva “Vita Sportiva” nel quale ha ripercorso alcuni dei momenti più belli della sua carriera.

Costantino Rocca, ci racconta cosa rappresenta per un giocatore la Ryder Cup avendone preso parte per tre volte?
“È come se un atleta volesse andare a Mondiali o alle Olimpiadi. È infatti il terzo evento sportivo più seguito al mondo. Tutti i giocatori vorrebbero partecipare, però ci sono delle selezioni per qualificarsi di diritto o esser invitati. È necessario fare importanti sacrifici per potervi accedere. Ci sono stati dei periodi dove i nove giocatori su dodici si qualificavano direttamente, quest’anno saranno invece soltanto sei mentre gli altri saranno invitati. Non è facile, bisogna stare fra i tre migliori europei del ranking mondiale e i tre del ranking europeo per esser fra i primi sei”.

Quanto può essere importante per il movimento italiano avere una competizione simile in casa?
“Bisogna investire su campi pubblici e turistici per invogliare le persone a venire e dimostrare che il golf, come in Spagna, Portogallo, Grecia, Turchia e Francia, sia uno sport che attira turisti. Fondamentale è far entrare lo sport nelle scuole, non solo il golf, ma tutte le discipline”.

La Ryder Cup è legata anche a una delle pagine più belle della sua carriera, la vittoria su Tiger Woods. Ci racconti come andò quella volta?
“Io ho giocato tre edizioni della Ryder Cup (1993, 1995, 1997) e, anche se la prima l’abbiamo persa, è stata una grandissima esperienza. Partecipare per la prima volta a un evento simile è da pelle d’oca. Nel 1995 ho giocato in America vincendo e facendo una buca in uno. È stata una bellissima esperienza soprattutto vedendo il supporto del pubblico americano a favore dei loro giocatori, ma anche degli europei presenti nello stato di New York. Nel 1997 era la prima volta che la Ryder usciva dal territorio inglese dando una valorizzazione al team Europa. Ho giocato molto bene e vincere contro Tiger è stato molto soddisfacente, non tanto perché ho battuto il numero uno al mondo, ma perché ho portato a casa un punto per la mia squadra. Batterlo non è stato facile, ma è stato il coronamento di tutta una settimana con la massima concentrazione per ottenere proprio il massimo risultato”.

Altra pagina memorabile è l’Hole in One ottenuto nel 1995. Com’è nato quel colpo?
“Ne ho fatti quattordici di colpi del genere in carriera, motivo per cui nascono se uno ci crede. In settimana, durante i giri di prova, ho sempre messo la palla molto vicina, per cui perché non crederci a queste cose? Ho fatto qualcosa di eccezionale avendo centrato la buca da 150 metri, però è andata bene”.

Nel 1996 ha giocato l’Open d’Italia al Golf Club L’Albenza di Almenno San Bartolomeo, dove lei è cresciuto. Com’è stato giocare sul campo di casa un torneo così prestigioso?
“Il primo giorno è andata benissimo, ero in testa. Purtroppo poi il tempo ci ha castigati. Il secondo giro, invece che giocarlo il giovedì, l’ho affrontato il sabato pomeriggio. L’attesa e l’indecisione degli organizzatori hanno contribuito negativamente sul mantenimento della concentrazione. Sei a casa tua, tutti ti fanno richieste, per non esser sgarbato rispondi a tutti e quindi perdi un po’ l’attenzione. Non è colpa loro se non ho vinto e non ho giocato al meglio, però è stato molto bello vedere il supporto dei miei compaesani”.

A proposito del Golf Club L’Albenza, lei ha mosso lì i suoi primi passi in questo mondo svolgendo il ruolo di caddie. Com’è nata l’idea di rendere questa passione un lavoro?
“A quel tempo andavo a scuola e poi, in bicicletta partendo dalla mia abitazione a Longa, andavo al Golf Club a fare il caddie. È quanto facevano molti ragazzini, però poi ho lavorato per dieci anni in fabbrica ed è capitato di tutto perché mi hanno invitato a lavorare all’interno del Golf Club. Dopo un anno ho chiesto la possibilità di insegnare e da lì è nato un lavoro vero e proprio. Il golf può essere uno sport che fa capire diversi valori come il rispetto dell’avversario e della natura”.

Lei è diventato professionista nel 1981 giungendo alla vittoria solo dopo diversi anni. Cosa l’ha spinta a non mollare di fronte a queste avversità?
“La prima vittoria è arrivata nel 1984 al Campionato Italiano. Da lì ho vinto alcuni tornei nel circuito minore prima di accedere all’European Tour nel 1989, mentre quattro anni dopo ho vinto il primo Open a Lione e dopo due mesi l’Open di Francia. Nonostante il tempo trascorso prima di arrivare alla mia prima affermazione nel circuito continentale, quando sono andato a Roma per ottenere l’abilitazione al professionismo c’era un maestro australiano, Tom Linskey, che ha creduto in me. Mi disse ‘non sei un fuoriclasse, ma un grande campione lo puoi diventare. Tutto sta a te’. Ci ho quindi provato, anche se, non avendo fatto l’amatore a livello internazionale, quando andavo all’estero era difficile parlando sostanzialmente bergamasco. Fortunatamente ho avuto alcuni di compagni di viaggio italiani che mi hanno aiutato, come Baldovino Dassù e Renato Campagnoli, a integrarmi nell’ambiente. La voglia di arrivare era tanta anche se ho avuto un momento in cui volevo smettere, però nel 1989 ho fatto cinque record di campi, ho vinto tre tornei, ho fatto il record del percorso all’ultimo giro dell’Open d’Italia a Monticello. Per cui ho pensato che se ce l’avessi fatta lì, ce l’avrei potuta fare anche altrove”.

Il punto più alto della sua carriera è stato probabilmente al British Open 1995, dove si è arreso al play-off e ha sfoderato un altro colpo dei suoi. Non c’è stato il rammarico di aver vinto uno Slam?
“Per un giocatore di golf vincere uno Slam è come una pensione. È la cosa più bella, tolta la Ryder Cup. Ho lottato fino alla fine, ma purtroppo ho perso allo spareggio”.

Dopo l’era dei fratelli Molinari e di Francesco Manassero, l’Italia non è più riuscita a sfoderare un grande talento come lei. Cosa manca ai nostri ragazzi per sfondare a livello internazionale?
“Tecnicamente non abbiamo nulla da invidiare a nessuno. Secondo me giochiamo bene e vogliamo vincere, però ci mancano quei piccoli colpi fatti con esperienza per centrare il grande risultato. Anche se fondamentalmente siamo capaci, gli altri hanno qualcosa in più e dobbiamo sempre inseguire, giocando costantemente su campi diversi. La tattica di gioco è diversa per cui bisogna inventarsi sempre qualcosa di nuovo”.

Ci sono dei talenti italiani che in futuro potrebbero diventare giocatori di alto livello?
“Il prossimo anno dovrebbero esserci altri tre golfisti che possono prendere la carta per accedere all’European Tour, oltre a Guido Migliozzi. Potremmo averne anche dieci, però contano questi piccoli dettagli per arrivare lì. Ovviamente quando si raggiunge quel livello non si è arrivati, ma bisogna lavorare due volte di più per rimanerci. Rimango comunque fiducioso perché ne ho passate tante anch’io e sono riuscito a ottenere comunque grandi soddisfazioni”.

In conclusione, se dovesse dare un consiglio a un ragazzo che vorrebbe diventare professionista, su quale punterebbe?
“Dobbiamo saper camminare con i piedi per terra, motivo per cui se si vince un torneo, si raggiunge sì un buon traguardo. Ma per diventare ancora più forti bisogna lavorare sempre di più, al fine di mantenere quel livello di gioco”.