Federica Sorrentino
«Mio padre è quel signore che in un filmato Rai ormai passato alla storia, il giorno della vittoria del primo scudetto del Napoli, a fine partita scappa negli spogliatoi inseguito da Giampiero Galeazzi che lo sovrasta brandendo un microfono. Sugli spalti novantamila napoletani cantano la loro gioia, e lui, occhi bassi e passo veloce, si limita a dire: “Abbiamo fatto un buon lavoro. Sono soddisfatto”. Stop.» E’ uno dei passaggi dell’autobiografia di Ottavio Bianchi, l’allenatore che guidò il Napoli di Maradona al primo, storico scudetto, raccolta dalla figlia Camilla, giornalista, nel libro “Sopra il Vulcano. Il campo, lo scudetto, la vita”, con la prefazione di Gianni Mura. Schivo, riservato e umile, Ottavio Bianchi descrive sé stesso e la sua esperienza nel mondo del calcio.
Quattro anni da allenatore del Napoli dal 1985 al 1989. Si usa dire “essere alle falde del Vesuvio”, ma il titolo della sua autobiografia recita “Sopra il vulcano”. E’ un riferimento a Maradona, croce e delizia di quell’avventura in panchina?
Il titolo del libro è nato da una intuizione di Gianni Mura. Nessun riferimento a Napoli o chicchessia, ma solo alla mia carriera, da calciatore e allenatore, abbastanza movimentata, sia per gli incidenti sia per i posti dove ho lavorato. Comunque, una carriera di grandi soddisfazioni e sacrifici.
Altri al suo posto avrebbero potuto vivere di gloria riflessa per avere regalato il primo scudetto della storia alla città di Napoli. Invece ha prevalso la sua riservatezza. Con i partenopei aveva giocato per cinque stagioni. Qual è il ricordo più bello della sua esperienza nel capoluogo campano, dove pur fece ritorno nella prima metà degli anni 90?
Ricordi belli di Napoli ce ne sono moltissimi, in particolare riferiti ai rapporti con i miei compagni di squadra e gli addetti della società. Allora ci si frequentava con le famiglie e i bambini, anche il fuoricampo era molto sentito. Da allenatore è stata una vita completamente diversa, avendo la responsabilità della gestione della squadra.
Lei ha scelto di non allenare più prima dei 60 anni. Cosa l’ha convinta a lasciare il mondo del calcio?
Ho cominciato da piccolo a giocare a calcio e ho frequentato tutte le zone d’Italia, da calciatore, allenatore e dirigente. Ho smesso sempre quando mi costava sacrificio andare sul posto di lavoro, ovvero quando mi sono accorto che non mi divertivo più.