A dieci anni dalla morte di Pietro Menna

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Pietro Mennea è morto all’improvviso una mattina di dieci anni fa. È stato un atleta, un campione, un uomo ineguagliabile. Fin da quando correva per Barletta sfidando le auto, la velocità è stata nella sua testa e gli ha permesso sempre andare più in là. Dai campi polverosi di provincia al grande salto in nazionale. Per l’Italia tutta è stato un vero idolo. Anche se lui ha fatto di tutto per non farsi trascinare dallo star system degli anni Ottanta. Schivo e riservato centellinava le sue apparizioni anche in pista, soprattutto dopo i due anni record: 1979, primato mondiale sui 200 metri (con 19”72) durato 17 anni e ancora record europeo, 1980 medaglia d’oro ai Giochi di Mosca.

Nonostante questo suo atteggiamento era considerato un vero eroe capace di gareggiare in 5 Olimpiadi, riuscendo a stabilire 2 primati mondiali, 8 europei, 33 nazionali. In 17 anni ha corso 530 gare ufficiali. È stato anche il portabandiera dell’Italia ai Giochi Olimpici di Seoul 1988.

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In tutta la sua vita non si è mai fermato. Dopo gli allori in pista, si è laureato quattro volte, è stato anche autore di numerose pubblicazioni, ha avviato uno studio legale insieme alla moglie Manuela Olivieri continuando a combattere contro il tempo anche quando il suo male ha iniziato a manifestare i primi sintomi.

Critico con le grandi organizzazioni sportive non ha risparmiato, nelle sue esternazioni, utili soluzioni per risolvere quelli che secondo lui erano i principali errori. La storia gli ha dato ragione. In questi ultimi dieci anni le grandi manifestazioni sportive hanno abbandonato il gigantismo del passato e avviato sempre più progetti volti alla legacy futura.

«Alla fine sono convinto – ripeteva Mennea – solo di una cosa: che in ogni sport conteranno sempre e solo gli atleti, loro sono gli attori protagonisti, unici e insostituibili».

Oggi allo Stadio dei Marmi al Foro Italico, intitolato a Pietro Mennea, una cerimonia lo ricorderà. (U.S.)