Dalle acque calde del Mediterraneo emerge una storia triste e raggelante come l’inverno in cui sembra si sia consumata. Mentre l’attenzione era rivolta all’assurdo dramma della nave Costa Concordia, i riflettori si spegnevano su uno dei tanti barconi alla deriva nella vana ricerca dell’approdo sicuro al termine di un viaggio della speranza che diventa disperato. Su di essi una giovane atleta che ha fatto parlare di sé alle Olimpiadi di Pechino 2008. La sua nazionalità è somala. Il suo nome Samia Yusuf Omar, praticamente sconosciuto ad eccezione degli amanti delle statistiche perché ha corso i 200 metri nello stadio a nido d’uccello facendo segnare l’ultimo tempo delle qualificazioni. 32 secondi per completare il mezzo giro di pista rappresentano un divario infinito rispetto alle atlete che lottano per il podio. Un’annotazione poco importante dal momento che la ragazza di Mogadiscio, città dove si continua a lottare per la sopravvivenza più che per la supremazia sportiva, aveva coronato il sogno di partecipare ai Giochi Olimpici. Con il desiderio di riprovarci, e senza il necessario sostegno economico ed organizzativo del suo Paese, Samia ha deciso di intraprendere la rotta verso l’Italia, tappa agognata per puntare a raggiungere Londra e ripetere l’esperienza della corsa a 21 anni e prim’ancora di portabandiera della Somalia, come le era capitato in Cina. Simbolo del coraggio di quella generazione nata e cresciuta all’ombra della guerra civile, Samia si è persa tra i flutti, forse inghiottita, forse morta di stenti. Era una brava nuotatrice, al punto che a Pechino s’era posto il dubbio se correre in pista o tuffarsi in vasca. Un tragico destino ha atteso lei e altre decine di disperati. Sarebbe stata una fine anonima se Abdi Bile, medaglia d’oro nei 1500 metri ai mondiali di atletica leggera di Roma 1987, non ne avesse parlato al cospetto del Comitato Olimpico somalo. Nessuno avrebbe saputo del sogno spezzato di Samia, nel giorno in cui la Somalia tiene per sé una fetta dello straordinario successo di Mo Farah, mezzofondista britannico trionfatore nei 5 e 10mila metri, uno che ha trovato asilo nel Regno Unito lasciando parte della famiglia e soprattutto un fratello gemello in Africa. Destini diversi e opposti. Da un lato il dramma di una giovane vita persa insieme a quella di altre migliaia che da anni sfidano il mare nel tentativo di approdare verso un futuro migliore. Dall’altro la favola compiuta. Sorge un dubbio atroce: perché nessuno ha detto a Samia che avrebbe potuto trovare porte aperte in Italia per allenarsi e continuare a inseguire il suo sogno?