Che senso ha? Perché? Era proprio necessario? Sicuri che non ci fosse spazio per un accordo condiviso fino in fondo? Sono le domande che sportivi, tifosi e semplici cittadini si pongono una volta appresa la decisione dell’Associazione Italiana Calciatori di non giocare la prima di serie A. Il muro contro muro dell’organismo sindacale rappresentato da Damiano Tommasi con la Lega presieduta da Maurizio Beretta ha sortito l’effetto di dar fuoco alla paglia anziché raffreddare l’ambiente. Per di più questo contenzioso, inizialmente legato principalmente al rispetto della dignità e al riconoscimento dei diritti del calciatore professionista e poi scivolato sull’addebito del contributo di solidarietà varato dal governo, è la coda di un tira e molla legato al rinnovo contrattuale collettivo che si trascina da tempo e cade nel momento in cui all’intero Paese si chiedono sacrifici e senso di responsabilità. Lo stop al campionato all’alba della prima giornata rischia di vanificare la faticosa azione di riavvicinamento degli sportivi allo spettacolo del calcio e mette in crisi quell’esteso indotto fatto di servizi legati allo stadio e alle televisioni. Due posizioni contrapposte, che rappresentano altrettanti interessi rivestiti di preoccupazioni. Da una parte i presidenti delle società di calcio che, a proposito del diritto reclamato dai tesserati di allenarsi con il gruppo indipendentemente dalle scelte operate nel corso della stagione, non vogliono correre il rischio di trascorrere più tempo nelle aule di tribunale che a bordo campo. L’accusa di mobbing è sempre in agguato e la gestione delle rose è sempre più complicata. Dall’altra i calciatori, i quali, legittimamente, vorrebbero fosse loro garantita quella continuità di preparazione per essere pronti a giocare ed eventualmente subito disponibili in caso di trasferimento ad altro club. Il buon senso avrebbe messo tutti d’accordo, ne siamo convinti. Così non è stato, anche perché nel frattempo sul tavolo della trattativa ha pesato il tema del contratto. I calciatori, come tutti coloro i quali esercitano la libera professione, sono tenuti a pagare le tasse sulla base di quanto percepito. A molti di essi le società garantiscono un introito netto, ma ciò non toglie che l’importo totale sia conteggiato al lordo. Senza tenere conto di guadagni legati a marchi e sponsorizzazioni. Fatto il totale, tirate le somme, è sacrosanto che ciascuno paghi il dovuto. Discuterne è un esercizio stucchevole e privo di significato. Addirittura paradossale l’idea di creare un fondo di solidarietà: con i soldi e a beneficio di chi? Fallita l’ipotesi di varare un accordo ponte fino a giugno 2012 quale classica ciambella di salvataggio, tutti i protagonisti della disputa si leccano le ferite. Una brutta figura collettiva di cui il Paese avrebbe fatto volentieri a meno. Cui prodest?