Un talento si riconosce subito dall’abilità nel superare una salita, nel lanciarsi verso il traguardo oppure nel controllare un pallone. La strada che lo separa dal diventare un campione è spesso lunga e piena di incidenti, per cui è necessario accompagnarlo lungo il proprio percorso per diventare grande.
Paolo Marabini ne ha visti parecchi nel corso della sua quarantennale carriera da giornalista e alcuni di questi li ha voluti raccontare nel suo nuovo volume “Bolt e i suoi fratelli. Ritratti di campioni quando non erano ancora campioni”.
Fra aneddoti e spunti riguardanti le categorie giovanili, il cronista della Gazzetta dello Sport ha riportato alla luce la storia di alcuni dei più grandi fenomeni del nostro tempo, sbocciati proprio nel fiore della loro gioventù.
Paolo, com’è nato questo libro?
“C’è stato un invito da parte di Cesare Longhi, editore di Bolis Edizioni, con il quale avevo già pubblicato la biografia di Valentina Vezzali e un libro sull’Unione Ciclistica Bergamasca. A tal proposito mi ha chiesto di proporgli alcune testimonianze della mia attività giornalistica visto che quest’anno ho raggiunto il traguardo dei quarant’anni. Ho fatto mente locale e mi sono accorto che durante la mia carriera avevo avuto la fortuna di vedere all’opera molti di quelli che sarebbero diventati dei grandi campioni. Abbiamo fatto una selezione ed è uscito questo volume dove c’è Bolt su tutti il quale, a nemmeno 16 anni, lo vidi vincere i Mondiali Juniores in Giamaica sui 200 metri, pur correndo con altri atleti tre anni più grandi di lui. Oltre a questo campione posso annoverare diversi nomi come Peter Sagan, Stefano Baldini, Andrew Howe, Mathieu Van der Poel e Wout Van Aert. C’è anche una donna, Allison Felix, che ho avuto la fortuna di vedere ancora sedicenne ai Campionati del Mondo allievi di atletica leggera”.
Come si fa a capire quando un giovane talento ha la stoffa per diventare un campione?
“Qui racconto solo chi ce l’ha fatta, ma ci sono stati degli atleti che da ragazzi avevano grandi numeri e si pensava che potessero sfondare e poi non ce l’hanno fatta. Su un paio di sport come atletica e ciclismo mi sono fatto un occhio avendoli praticati e soprattutto complice un’esperienza pluridecennale. Ho avuto sempre grande attenzione sui giovani, sul loro gesto atletico e sulle loro caratteristiche fisiche, e quasi sempre ci ho preso. Ovvio che poi sulla strada di un campione entrano in gioco numerose variabili che vanno dagli infortuni alle vicende familiari passando per le scelte di vita, con sportivi che a un certo punto preferiscono puntare sulla carriera professionale/scolastica piuttosto che su quella agonistica”.
Ci sono dei metodi per proteggere il talento di questi “diamanti grezzi” e consentirgli di sbocciare più avanti?
“Da questo punto di vista sono per il carpe diem, cogliere l’attimo e salire sul treno quando passa. Non sono per una iperspecializzazione precoce, non sono per sottoporre gli atleti giovani a sforzi che sono adatti più ad atleti più evoluti. Pensiamo però a un caso come quello di Federica Pellegrini: se fosse stata tenuta nella bambagia, a 16 anni non avrebbe vinto l’argento ad Atene 2004. Per essere una nuotatrice ha dimostrato di poter reggere una carriere molto lunga. Altri sono stati protetti e non sono mai esplosi per vari motivi. Va colto l’attimo, ma al tempo stesso non vanno bruciate le tappe della loro crescita. Se un ragazzo va forte a 16 anni, bisogna che continui ad andar forte senza caricarlo di aspettative e di lavori che il fisico non può sopportare”.
Attualmente ci sono degli atleti che potrebbero diventare dei campioni e stanno dominando le categorie giovanili?
“In ogni sport ci sono giovani interessanti. L’impressione è che con loro si tenda a fare l’errore di caricarli sia di aspettative che di lavori. Il risultato finale potrebbe essere che le carriere diventano più brevi oppure perché loro stessi si nauseano del loro sport. Ogni persona ha bisogno del rispetto dei propri tempi fisiologici e biologici. L’età ormai in cui un atleta si propone è sempre più bassa. Se un tempo i più precoci erano i nuotatori e le ginnaste, con Nadia Comaneci che ha vinto l’oro olimpico a 14 anni, adesso sono sempre più le discipline in cui i giovani riescono ad emergere”.
In conclusione, ci può esser il sequel di questo libro?
“Il sequel potrebbe riguardare la storia di chi ha mostrato un grandissimo talento da ragazzo, ma poi non ce l’ha fatta. Ne cito uno trasversalmente nel libro perché l’unico calciatore a cui ho dedicato un capitolo è Marco Simone, attaccante del Milan che passò giovanissimo per le fila della Virescit per un anno. Insieme a lui arrivò in prestito dal Como Oreste Didonè, considerato un grandissimo talento tanto da essere considerato da Roberto Baggio come uno dei più grandi fenomeni mai visti in Italia. Il suo problema fu che possedeva delle ginocchia fragilissime che gli hanno troncato la carriera, costringendolo a giocare sempre in Serie C dove il suo fisico poteva stare al passo degli altri e subendo traumi minori”.