Franco Baresi, i sogni del bambino divenuto leggenda raccontati al Festival di Sarnico

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Il bambino si pone davanti alla tv per seguire, emozionato, l’evento più importante di quell’estate del 1970. In Messico c’è la finale dei Mondiali di calcio: Brasile-Italia. Chissà cosa si prova a vivere un evento del genere?, pensa fra sé e sé. Giocare fra campioni contro i più titolati campioni del mondo. Che esperienza sarà? Da una parte gli azzurri con Albertosi, Burgnich, Facchetti, Cera, Rosato, Bertini, Domenghini, Mazzola, De Sisti, Riva e Boninsegna. In panchina Iuliano e Rivera (l’autore del 4-3 contro la Germania in semifinale). Dall’altra Felix, Britos, Carlos Alberto, Wilson Piazza, Everaldo, Clodoaldo, Jairzinho, Gerson, Tostao, Pelé e Rivelino. Gente da far tremare i polsi anche oggi al solo ricordo.

Quel bambino aveva 10 anni e un sogno nel cassetto. Lui, di Travagliato, paese agricolo della provincia di Brescia, si sfogava a più non posso rincorrendo il pallone con gli amici sui campi di erba appena falciati, senza porte e senza righe. La fantasia fa fare cose meravigliose.

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Quel bambino è divenuto leggenda. E la sera dell’8 luglio 2022, nel bellissimo spazio verde del parco Stella Maris, di fronte a un placido lago d’Iseo, nelle più belle ore del tramonto di Sarnico in una sera limpida e piacevolissima per la temperatura che la natura ha apparecchiato, è venuto a raccontare come vi è riuscito.

Grazie ad Alan Poloni (uno che si definisce insegnante redento, oggi libraio e milanista da sempre) si è inventato un festival di letteratura sportiva: “Fahrenheit 442”. Grazie alla complicità del Milan club di Foresto Sparso, Poloni ha portato a Sarnico Franco Baresi che, all’esordio del festival, ha presentato il suo libro: “Libero di sognare”, edito per i tipi di Feltrinelli.

E il ricordo comincia proprio da lì: da quella finale Italia-Brasile. Ma l’anno adesso è il 1994 e i Mondiali si disputano negli USA. Quel bambino di 10 anni ce l’ha fatta. Si è trovato a giocare tra i campioni più campioni di sempre. Divenendo lui stesso campione. E come tutte le leggende si porta dietro una cicatrice che non si rimarginerà mai più: il rigore fallito che causò la crisi di pianto a fine gara per il titolo mancato. Non fu l’unico a sbagliare il rigore, dopo di lui sbagliarono anche Massaro e Roberto Baggio. Ma lui, il capitano, racconta la sua storia proprio a partire da quell’errore, per far capire cosa c’era dietro e come si è costruito tutto il percorso per arrivare lì.

Nella sua carriera ha giocato vent’anni nel Milan e solo nel Milan vincendo sei scudetti, tre Coppe dei Campioni, due Coppe Intercontinentali, tre Supercoppe UEFA e quattro Supercoppe italiane. Con la Nazionale italiana ha partecipato a tre campionati del mondo (Spagna 1982, Italia 1990 e Stati Uniti 1994) e due campionati d’Europa (Italia 1980 e Germania Ovest 1988).

Di professione “libero”, insieme a Tassotti, Costacurta e Maldini ha formato la difesa più forte al mondo. Nel 1989 è arrivato secondo nella classifica del Pallone d’oro dietro al compagno di squadra Marco van Basten, nel 2004 è stato incluso nella FIFA 100, la lista dei 125 più grandi giocatori viventi stilata da Pelé e dalla FIFA in occasione del centenario della federazione, e nel 2013 è entrato a far parte della Hall of Fame del calcio italiano. Dopo 700 partite con il Milan annunciò il suo ritiro dal calcio giocato al termine dell’annata 1996-1997. E il Milan ritirò la maglia n. 6.

Questa leggenda del calcio internazionale, ora, è lì con semplicità, seduto su una poltroncina all’aperto, a raccontare e a raccontarsi come si fa a un incontro tra amici. Vuole solo lanciare un messaggio ai giovani: “Sì, i sogni si possono realizzare e io ne sono la testimonianza”. “I bambini – dice – devono essere lasciati liberi di giocare e ognuno poi troverà la sua strada”.

Fu grazie a don Piero, il curato dell’oratorio di Travagliato, se Franco Baresi è divenuto un calciatore “perché – racconta – all’oratorio ho imparato il rispetto delle persone, del gruppo, della squadra. Il talento da solo non basta. Per raggiungere i traguardi ci vuole coraggio, sacrificio, forza morale e la fortuna di incontrare le persone giuste”.

E pensare che il primo provino fatto con il Milan non andò tanto bene. E allora i dirigenti del Travagliato, che sapevano, invece, del valore di Baresi organizzarono una partita amichevole col Milan sul campo di casa. Lì venne visto e portato a Milanello.

Mangiavo al tavolo con Bigon e Rivera, due mostri sacri del Milan. Avrò detto cinque parole in tutta la stagione. Ho imparato ad ascoltare. Rivera era il capitano, ma non si dava le arie con i compagni più giovani o con i ragazzi che arrivavano dalla Primavera”.

Baresi fa il suo esordio nel ’78 contro il Verona. Quell’anno il Milan vince il 10° scudetto. La formazione-tipo era fatta da: Albertosi, Baresi, Collovati, Bet, Maldera, Buriani, Antonelli, Rivera, Bigon e i nuovi acquisti Walter De Vecchi, Walter Novellino e Stefano Chiodi. In panchina c’è Liedholm. A 22 anni si trova a essere il capitano del Milan.

Liedholm e Sacchi hanno esaltato il valore del giocatore con le loro idee calcistiche ricche di novità. Baresi era il signore della difesa, ma quando arrivò nel calcio il concetto di “zona”, ecco che il N. 6 del Milan si è sentito un “libero liberato”. “Il segreto – racconta – sta tutto nell’anticipo. Una volta conquistata la palla potevo ripartire e galoppare verso l’area avversaria. Mi è sempre piaciuto il calcio propositivo perché ti permette di essere intraprendente”.

Baresi ha disputato tre Mondiali con la Nazionale salendo sempre sul podio primo, secondo e terzo posto. Non è cosa che possono raccontare tutti, visto che l’attuale Nazionale italiana ha fallito l’obiettivo qualificazione mondiali per ben due volte di seguito. Così si allunga solo la leggenda di Baresi. Che lascia spazio nel libro anche alla riflessione su alcuni atteggiamenti antisportivi (ricorda en passant anche quello di Bergamo). “Gli errori sportivi – vedi rigore fallito – ci possono stare. Gli atteggiamenti anti-sportivi, invece, a distanza di tempo capisci che sono errori che potevano e dovevano essere vissuti diversamente”. E qui scatta l’applauso per l’uomo che sottolinea a più riprese che “prima viene la persona e poi l’atleta e che la lealtà e il rispetto sono le cosa più importati”.

Il racconto ha il sapore del ragazzo che viene dalla campagna, buttato nella realtà della metropoli, ma che, grazie agli insegnamenti di don Piero e della civiltà contadina, non ha mai perso la testa. La serata ha avuto la sentenza che meritava, questa volta, di un rigore andato a segno: quello della vita.